Sentenza storica per 3.000 keniani avvelenati dal piombo: verranno risarciti

Decine di persone si sono ammalate per le esalazioni tossiche di una fabbrica di piombo, nella periferia di Mombasa. Ora un tribunale ha fatto giustizia.

12 milioni di dollari. Ecco quanto dovrà sborsare il governo del Kenya, assieme ad alcune società locali, per risarcire i 3mila abitanti di Owino Uhuru, una baraccopoli (slum) alla periferia di Mombasa. Per anni queste persone hanno subito gli effetti nefasti di una fabbrica di piombo che si era insediata nel loro territorio. Acqua, aria e terreni in poco tempo hanno raggiunto livelli di inquinamento molto alti e le persone hanno cominciato ad ammalarsi. Oggi un tribunale ha fatto giustizia, dopo anni di strenuo lavoro degli attivisti locali.

Le batterie al piombo di Mombasa

La Metal refinery epz era un’azienda indiana, insediatasi a Owino Uhuru nel 2007. La sua attività consisteva nell’incenerire batterie di automobili, così da ricavarne piombo da vendere sul mercato. Tra i suoi dipendenti c’era Phyllis Omido, una giovane avvocata della città. Era stata chiamata a occuparsi delle relazioni con la comunità locale e tra i primi compiti assegnati, la redazione di un rapporto sull’impatto ambientale dello stabilimento.

Dopo qualche mese il figlio di Omido si è ammalato. Gli hanno trovato del piombo del sangue, probabilmente trasmesso attraverso il latte materno. Intanto l’avvocata stava raccogliendo materiale per il suo lavoro e aveva capito che c’era qualcosa che non andava nell’attività della fabbrica. Sversamenti di materiale tossico nei fiumi, gli stessi usati dalla popolazione locale per lavarsi, ma anche fumi neri emessi dalle ciminiere di notte affinché fossero meno visibili. La Metal refinery epz stava violando le normative ambientali nazionali, un elemento che unito alla malattia del figlio ha convinto Phyllis Omido a licenziarsi e cominciare la sua battaglia contro l’azienda indiana.

L’avvocata ha fondato un gruppo indipendente, il Center for justice, governance and environmental action. Attraverso di esso si è attivata affinché i test fatti a suo figlio venissero estesi agli altri abitanti dello slum. A decine sono stati trovati con valori di piombo nel sangue totalmente fuori dai parametri, mentre a oggi sono sei i decessi direttamente riconducibili all’inquinamento della fabbrica. Il numero reale, secondo Omido, si avvicina però a cento. Intanto animali come pesci e galline hanno continuato a morire, tanto che è stato ordinato il divieto di consumo alimentare delle specie del territorio.

Una sentenza storica per i keniani

Se nei primi tempi la battaglia è stata difficile, dal momento che tra i proprietari della Metal refinery epz c’era un esponente del governo kenyota e lo stesso governo si era speso perché lo stabilimento si insediasse a Owino Uhuru, successivamente le cose sono migliorate, ma solo apparentemente. La fabbrica nel 2014 è stata chiusa, ma ormai il territorio di Owino Uhuru era già contaminato. Negli anni successivi, le persone hanno continuato ad ammalarsi.

Ecco perché la battaglia degli attivisti guidati da Phyllis Omido non si è fermata. Mentre l’avvocata, ribattezzata la Erin Brockovich africana, vinceva il più importante riconoscimento per gli ambientalisti a livello mondiale, il Goldman environmental prize, la causa contro lo stato e l’azienda andava avanti. Nel 2016 si è finiti in tribunale con una class action volta a dimostrare il legame tra l’attività di incenerimento delle batterie e i livelli di inquinanti nell’area. Nel 2018 è poi cominciato il dibattimento vero e proprio presso il tribunale di Mombasa.

Ora il lieto fine. Con una sentenza storica, il tribunale ha stabilito un risarcimento di 12 milioni di dollari per gli abitanti di Owino Uhuru. La quota dovrà essere versata dal governo e da alcune aziende del paese entro 90 giorni, mentre si dovrà anche procedere alla bonifica dell’area.

Il ruolo degli attivisti

“Siamo stati molto scrupolosi nella nostra strategia e non abbiamo concesso alcuna scappatoia che potesse indebolire la nostra causa”, racconta a LifeGate Tom Bicko Ooko, Project officer al Center for justice, governance and environmental action. “Abbiamo assunto un esperto per condurre test scientifici sul suolo, sull’acqua e sull’ambiente; abbiamo condotto test medici sui residenti e sugli animali per dimostrare che erano stati avvelenati; abbiamo impiegato un buon team legale che non ha lasciato nulla di intentato in udienza e raccolto prove concrete a sostegno delle nostre richieste; abbiamo infine sviluppato un protocollo di sicurezza per i nostri testimoni per garantire loro una tutela dalle numerose minacce ricevute”.

Good News!!The #owinouhuru community won the case. 1.3Billion awarded to the community .National Environment Management…

Pubblicato da Phyllis Omido su Giovedì 16 luglio 2020

Giustizia è fatta, dunque? Sì, ma la battaglia non è ancora finita. I test a tappeto devono continuare, così da mettere in salvo gli ammalati in attesa che l’area venga decontaminata. “Owino Uhuru continua a costituire un grande rischio per i suoi abitanti. Il piombo impiega diversi anni per liberarsi dal terreno e quindi i campi, i tetti e le pareti delle case, i ruscelli e l’intero ambiente circostante oggi presentano ancora depositi di piombo. Questo significa che la salute dei residenti, degli animali e delle piante continua a deteriorarsi ogni singolo giorno per effetto del metallo pesante”, continua Bicko Ooko. “Il suolo non può più sostenere l’agricoltura di sussistenza a causa dell’inquinamento e i costi medici per il trattamento dell’avvelenamento da piombo sono troppo alti per i residenti, che sono molto poveri”.

Piombo: un problema diffuso in altre zone del Kenya

Quanto avvenuto in questi anni nella baraccopoli di Owino Uhuru non è un’eccezione. Sono tante le storie simili che arrivano da altre zone del Kenya, ma anche dal resto del continente africano. Secondo i dati del Lead recycling africa project, ogni anno 1,2 miliardi di tonnellate di batterie vengono lavorate nel continente per ottenere una quantità di piombo che equivale all’8 per cento della produzione mondiale.

Il Center for justice, governance and environmental action si è occupato di diversi dossier di questo tipo. “Le imprese hanno la tendenza diffusa a realizzare profitti a spese dell’ambiente e di cittadini innocenti”,  sottolinea Bicko Ooko. “Solo in Kenya siamo riusciti a far chiudere altre 17 fonderie, che stavano inquinando l’ambiente, oltre alla raffineria di Owino Uhuru. In Nigeria abbiamo seguito un caso di avvelenamento da piombo dello stato di Zamfara, che ha ucciso oltre 150 residenti in soli tre mesi”.

Molti impianti continuano però a operare mettendo a rischio la salute delle persone. Degli abitanti, ma anche dei lavoratori stessi, che si ritrovano spesso a operare a mani nude e senza protezioni a causa di imprenditori senza scrupoli. La sentenza di Mombasa potrebbe però cambiare le carte in tavola, offrendo un precedente importante che possa anche fare da deterrente al collaudato sistema di abusi ambientali nel continente.

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