Guerra del Vietnam, voci delle donne della resistenza che non portano rancore

Il 30 aprile ha segnato il cinquantesimo anniversario della fine della guerra del Vietnam. Questo reportage è un viaggio alla scoperta delle storie delle donne Viet Cong che hanno lottato per la resistenza e la riunificazione del paese.

Loan ha 75 anni, il viso scavato e il corpo esile di una ragazzina. Si rannicchia per salutare due cagnolini che le saltano addosso leccandole le mani. Quelle mani consumate dall’artrosi che un tempo hanno conosciuto le vesciche gonfie di chi passa giorni a svuotare la terra, scavando i tunnel che ancora oggi corrono sotto Ky Anh, un villaggio di mille anime nel Vietnam centrosettentrionale.

Loan è una delle ultime guerrigliere Viet Cong. Una delle tante donne della resistenza che cinquant’anni fa contribuirono a sconfiggere il regime del Vietnam del Sud sostenuto dagli Stati Uniti e a riunificare il paese.

Donne viet cong
Le donne soldato nel 1970 © API / Getty Images

La guerra del Vietnam, una guerra brutale

La guerra del Vietnam (1955-1975), tristemente ricordata come uno dei conflitti più lunghi e brutali del Novecento, vide scontrarsi l’esercito del Vietnam del Sud, controllato dal regime anticomunista di Ngo Dinh Diem sostenuto dagli Stati Uniti, e quello del Vietnam del Nord, guidato dal rivoluzionario comunista Ho Chi Minh, fondatore della Lega per l’indipendenza del Vietnam. Causò la morte di circa 3,8 milioni di persone e diede origine a grandi ondate di manifestazioni pacifiste e di protesta.

Lottando contro il blocco comunista sostenuto da Cina e Unione Sovietica, l’esercito statunitense in vent’anni sganciò sul suolo vietnamita oltre 14 milioni di tonnellate di bombe e proiettili (quasi tre volte quelle usate nella Seconda guerra mondiale, dati del Museo dei resti della guerra di Ho Chi Minh), e spruzzò sul 25 per cento del territorio vietnamita circa 80 milioni di litri di sostanze chimiche come il famigerato Agente arancio, un defoliante usato per stanare le forze del nord che si proteggevano tra la vegetazione.

Si stima che ancora oggi almeno tre milioni di persone, tra cui molti bambini, soffrano di gravi malattie associate all’esposizione alle armi chimiche.

albero secolare
L’albero secolare usato come punto di osservazione verso la base Usa nel Villaggio Ky Anh © Lucia Bellinello

Il Vietnam ha lottato per decenni per ripulire l’eredità tossica della guerra, con gli Stati Uniti d’America che hanno iniziato a contribuire solo negli anni Duemila, dopo aver ignorato a lungo le prove degli effetti tossici. E oggi, con i tagli impartiti dall’amministrazione Trump ai fondi dell’Usaid, l’agenzia statunitense per gli aiuti internazionali, i contributi per la bonifica sono più che mai a rischio.

Durante quell’atroce guerra, che si concluse il 30 aprile 1975 con la caduta di Saigon e la sconfitta del regime filostatunitense del Vietnam del Sud, tra le file della resistenza combatterono anche centinaia di migliaia di donne. Ragazze, spesso giovanissime, che ebbero un ruolo fondamentale nella costituzione delle basi rivoluzionarie e nella formazione dei reparti militari femminili, oltre che nelle attività di spionaggio e nel lavoro logistico e amministrativo.

Secondo i dati del Museo delle donne vietnamite di Hanoi, negli anni Sessanta furono circa venti milioni le donne che si unirono alla lotta militare e politica per la riunificazione del paese. Molte di loro furono arrestate, torturate e uccise.

Durante il conflitto infatti i soldati statunitensi si macchiarono di brutali crimini di guerra, come il massacro di My Lai, nel marzo 1968, che causò la morte di centinaia di civili disarmati, tra cui donne e bambini, alcune delle quali furono violentate e mutilate prima di essere uccise.

I racconti di quegli anni

“Quando la guerra finì, eravamo talmente felici che non riuscivamo a dormire. Ricordo le lacrime di gioia sui volti delle persone. Era come un sogno”, racconta Loan, dando un buffetto a uno dei due cani e rialzandosi in piedi. A pochi metri da lei un albero enorme fa ombra su una pietra commemorativa con una targa affissa. “Questo albero ha 500 anni – dice Loan, alzando gli occhi velati dalle cataratte –. Durante la guerra lo usavamo come punto di osservazione. Salivamo là in cima per scrutare la base statunitense che si trovava ad appena due chilometri di distanza da dove siamo adesso. Per fortuna, almeno lui è sopravvissuto ai bombardamenti”.

Durante la guerra il villaggio di Ky Anh dove vive Loan era considerato un punto strategico: era infatti su una rotta di transito usata per trasportare cibo, medicinali e combattenti diretti verso il cuore della rivoluzione.

Per questo il governo di Saigon voleva conquistare e invadere il nostro villaggio, perché era un punto strategico. Noi avevamo il compito di proteggerlo. E l’unico modo fu costruire dei tunnel sotto le nostre case per fermare il nemico e mantenere il controllo dell’area.

Loan

Ancora oggi infatti sotto le stradine di ghiaia e terra battuta che collegano le case basse di Ky Anh si snodano 32 chilometri di tunnel, scavati da Loan e dai suoi compagni tra il 1965 e il 1967. Ci vollero due anni e le braccia di tremila persone per creare quell’angusto reticolo di gallerie, al quale si accede attraverso due botole poste alla base di un edificio basso color limone, usato come base rivoluzionaria durante la guerra.

“In questo edificio ci riunivamo per pianificare le battaglie”, spiega Kim Ta, 67 anni, un signore del villaggio che in quegli anni perse la mamma, il papà e il fratello. “Decidemmo di scavare due tunnel proprio sotto questo edificio: uno serviva per conservare il cibo, l’altro conduceva a un bunker di primo soccorso dove portavamo i feriti”.

Poco più in là, sotto a covoni di fieno sollevati da terra con dei pali di legno, si intravedono altre botole: sono gli accessi secondari ai tunnel, dove si può entrare solo a carponi. “I giorni là dentro erano duri e impregnati di morte”, dice Kim Ta, che oggi ha tre figli e tre nipoti, alcuni dei quali lavorano nelle vicine fabbriche tessili che danno lavoro a buona parte dei suoi concittadini. “Ma abbiamo combattuto fianco a fianco per sconfiggere il nemico e unificare il Paese”, gli fa eco Loan, sistemandosi i capelli grigi raccolti dietro la testa.

tunnel Vietnam
Uno degli accessi ai tunnel nel villaggio di Ky Anh © Lucia Bellinello

Il contributo delle donne alla resistenza

Anche nel Vietnam del Sud le donne costituivano una parte significativa delle forze guerrigliere, circa il 40 per cento, mentre nelle zone rurali e di montagna si contavano almeno cinquanta squadroni femminili. Alcune imprese di queste guerrigliere sono oggi ricordate nel Museo delle donne vietnamite di Hanoi: “L’8 marzo 1969 i gruppi di artiglieria femminile a Binh Duc e My Tho (due località nella regione meridionale del Mekong, ndr) distrussero 12 aerei, tre cannoni da 105 mm, un deposito di carburante e uccisero o ferirono oltre cento soldati americani”, si legge. E ancora: “Nell’offensiva del 1968, un gruppo di undici miliziane della cittadella di Hue (sulla costa centrale) sconfisse un battaglione di Marines uccidendo più di cento soldati”.

In varie zone del paese furono scavati tunnel sotterranei profondi anche 10-30 metri, usati come rifugi, ospedali, cucine e postazioni militari. Spesso al loro interno venivano allestiti anche asili e reparti di maternità, e si stima che in quei cunicoli furono partoriti almeno un centinaio di bambini.

Le madri eroiche del Vietnam

Uscendo dal villaggio di Ky Anh, oltre la scuola, ci si imbatte in una casetta-negozio affacciata direttamente sulla strada, con il cancello spalancato. Lì, insieme al figlio, alla nuora e ai nipoti vive Tinh, una signora di 87 anni che in guerra perse il marito e altri cinque membri della famiglia. Per questo ottenne il titolo di Madre eroica del Vietnam, quel riconoscimento assegnato alle donne che hanno perso figli e mariti nei combattimenti. Nel villaggio di Ky Anh si contano 237 Madri eroiche. Nel 2008, in tutto il paese ce n’era circa 50mila.

“Ogni volta che le forze di Saigon si avvicinavano al nostro villaggio, ci rifugiavamo nei tunnel. Ma c’erano anche giorni, quando poi si allontanavano, in cui vivevamo normalmente – racconta Tinh, stirando le labbra in un sorriso triste che svela i pochi denti rimasti –. Quando vennero la prima volta a cercare mio marito, lo aiutai a nascondersi sotto la botola di un tunnel. Quella volta si salvò. Ma quando tornarono nuovamente, non ci fu nulla da fare”.

Perché il Vietnam non porta rancore

Ciò che colpisce di più è la sorprendente assenza di rabbia e rancore tra la gente del Vietnam. Come se questo Paese, dove il buddismo è tra le religioni più diffuse, fosse riuscito a trasformare il dolore in speranza verso il futuro. Il Vietnam tra l’altro è in cima alla classifica Gallup dei paesi più ottimisti al mondo.

Kien, una giovane guida che porta a spasso i turisti per le strade di Hanoi, spiega così questo fenomeno: “L’età media della popolazione vietnamita è di 32 anni, quindi molti di noi non hanno vissuto la guerra. Siamo la prima generazione che vive in pace. Sogniamo solo una vita normale”.

In effetti, in questo paese giovane e dinamico, dove l’obiettivo di crescita economica per il 2025 è dell’otto per cento, la popolazione sembra intenzionata a rincorrere la prosperità anche insieme ai vecchi nemici, agli Stati Uniti, diventati oggi il secondo partner commerciale e il principale mercato di esportazione. E anche se il Partito Comunista è ancora al potere, il Vietnam si è dimostrato aperto al mercato e al capitalismo e, cosa ancor più importante, avverso alla Cina, con cui intrattiene sì intense relazioni commerciali ma anche rapporti difficili per via delle tensioni nel Mar Cinese Meridionale.

“Una delle prime cose che molti americani notano quando vanno in Vietnam è che non sono solo benvenuti e tollerati: c’è un entusiasmo genuino”, ha spiegato al New York Times Edward Miller, storico del Vietnam moderno all’università Dartmouth, negli Stati Uniti. La grossa diaspora vietnamita che vive negli Usa, poi, ha contribuito in un certo modo a proiettare in patria un’immagine più favorevole dei vecchi nemici.

Da un lato, quindi, il tempo ha fatto la sua parte. Dall’altro, la stragrande maggioranza della popolazione sembra voler guardare al futuro. Come se avesse scelto di proteggere le nuove generazioni da quel sentimento d’odio che ogni guerra inevitabilmente porta con sé, consapevole che è proprio di quel sentimento d’odio che potenzialmente si nutrono i nuovi conflitti.

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