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Sono trascorsi 30 anni dal massacro di Srebrenica, il luogo dove è avvenuto il primo genocidio europeo dopo la Seconda guerra mondiale.
Aggiornamento del 4 aprile 2022
Srebrenica è una piccola città della Bosnia Erzegovina orientale. Durante la guerra civile nell’ex Jugoslavia, cominciata alla fine di marzo 1992, questa enclave ha vissuto uno dei peggiori massacri avvenuti in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Nel luglio del 1995, circa ottomila uomini e ragazzi musulmani sono stati uccisi dalle forze militari serbe guidate dal generale Ratko Mladić, mentre le donne, i bambini e gli anziani venivano deportati. L’episodio si colloca all’interno del periodo di disgregazione della Jugoslavia cominciato con la dichiarazione d’indipendenza della Slovenia e della Croazia nel 1992.
Prima del massacro di Srebrenica, la cittadina era stata dichiarata “safe haven”, ovvero una zona demilitarizzata. Per questo motivo durante il massacro si trovava sotto il controllo della Forza di protezione delle Nazioni Unite (Unprofor) presente con circa 600 caschi blu olandesi. Nonostante ciò, l’11 luglio 1995 l’esercito serbo-bosniaco è riuscito a conquistare la città dopo sei giorni di assedio. Nelle 48 ore successive i militari hanno compiuto la strage senza alcun ostacolo.
Quello che viene comunemente definito “massacro” è in realtà un genocidio secondo quanto stabilito dalla sentenza del 19 aprile 2004 emessa dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Il generale Mladić è stato arrestato il 26 maggio 2010 dopo anni di latitanza e condannato all’ergastolo il 22 novembre 2017. L’altro responsabile del massacro è Radovan Karadžić, all’epoca presidente della Repubblica Serba di Bosnia o Republika Srpska, una delle due entità in cui è divisa la Bosnia. L’altra è la Federazione di Bosnia Erzegovina. Anche Karadžić è stato arrestato, il 21 luglio 2008, e condannato a 40 anni di reclusione il 24 marzo 2016.
Sebbene la guerra sia finita (fatto non sempre chiaro in Occidente), nei Balcani vi è una situazione di tensione non ancora sopita. La necessaria presenza militare dell’Unione europea e della Nato in zone di viva tensione come la stessa Bosnia Erzegovina, il Kosovo e la Macedonia, rivela una condizione di forte incertezza e un perdurante potenziale di rischio nei rapporti fra le diverse etnie.
A Srebrenica, in particolare, la situazione è tutt’altro che risolta. Dopo il genocidio la piccola enclave musulmana è stata dimenticata da tutti. Srebrenica si trova ancora politicamente confinata agli estremi orientali della Republika Srpska, a pochi chilometri dal confine con la Serbia. Geograficamente si trova in una regione montuosa ed impervia che non le permette di essere meta di commercio e turismo, una volta molto sostenuto grazie alla presenza di stabilimenti termali.
L’attività della grande fabbrica metallurgica presente in città non è mai stata ripristinata e la disoccupazione supera di gran lunga il 50 per cento. Le famiglie rientrate dopo la fine della guerra non sono in grado di garantirsi un reddito. Per questo e per molti altri motivi, il giudizio comune nei riguardi dell’enclave, percepibile dalle testimonianze degli occidentali che vi sono stati, è che si tratti di una “città fantasma”.
Dopo il massacro di Srebrenica, la condizione della della Bosnia Erzegovina in generale è lo specchio di un paese mai realmente ripresosi dalla guerra civile degli anni Novanta. Un paese continuamente sottoposto a pressioni esterne e interne che ne impediscono il ritorno a una vita di convivenza civile, anche a vent’anni di distanza. Per riuscire in questa impresa è fondamentale accettare la memoria e investire nella ricchezza di un passato multiconfessionale e multietnico, non certo privo di conflitti ma sicuramente unico all’interno del panorama culturale europeo.
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