Guinea. Le miniere di ferro cinesi sui monti Simandou rischiano di provocare una “catastrofe ecologica”

I colossi cinesi hanno messo gli occhi sui preziosi giacimenti di ferro nei mondi Simandou, in Africa occidentale. Il governo ha bloccato momentaneamente il progetto, ma non per motivi ambientali.

  • I monti Simandou, in Guinea, custodiscono immensi giacimenti di ferro che finora non sono stati sfruttati.
  • Un consorzio di compagnie minerarie cinesi si è aggiudicato le concessioni per scavare miniere a cielo aperto sulla metà dell’area.
  • Le ong locali temono che le conseguenze per la biodiversità e la popolazione siano devastanti.
  • Il 3 luglio il governo militare della Guinea ha bloccato le operazioni, ma non per motivi ambientali.

 

Articolo aggiornato il 7 luglio 2022

Nell’Africa occidentale, per la precisione in Guinea, c’è una catena montuosa fatta per la stragrande maggioranza di ferro. La sua concentrazione arriva fino al 65 per cento, il massimo possibile in natura. Sono i monti Simandou e, secondo le stime, ne custodiscono 8,6 miliardi di tonnellate: sarebbero abbastanza per forgiare l’acciaio per 100mila palazzi identici all’Empire state building di New York. Per millenni il ferro è rimasto nel sottosuolo ma, a partire dagli anni Novanta, si sono fatte avanti le compagnie minerarie straniere. Prima l’anglo-australiana Rio Tinto, poi il miliardario israeliano Beny Steinmetz, poi la brasiliana Vale. Tutte, però, si sono dovute scontrare contro ostacoli apparentemente insormontabili, tra colpi di stato militari, dispute legali, accuse di corruzione e l’epidemia di Ebola. Senza contare gli enormi investimenti necessari per mettere in moto una macchina produttiva così poderosa, in un luogo tanto difficile da raggiungere. Ora, però, è il turno dei colossi cinesi che paiono intenzionati ad andare avanti a ogni costo. Poco importa se sarà necessario sacrificare uno degli ecosistemi più ricchi di biodiversità del continente.

Le mire cinesi sul ferro dei monti Simandou

Ad accompagnarci fino ai monti Simandou è un lungo reportage scritto da Sheridan Prasso per Bloomberg. A un quarto di secolo dai primi infruttuosi approcci di altre aziende straniere, nel 2019 un consorzio cinese si è aggiudicato le concessioni per scavare circa metà del giacimento di ferro dei monti Simandou. Lo scorso anno gli operai si sono messi al lavoro per tracciare strade e scavare tunnel. Il piano prevede di costruire da zero una linea ferroviaria lunga circa 650 chilometri diretta fino a un nuovo porto sulla costa atlantica, da cui i carichi salperanno diretti verso l’altro capo del pianeta.

Anche questo progetto rientra nel filone della Nuova via della seta (Belt and road initiative), con cui la Cina sta costruendo nuove vie commerciali via rotaia e via mare, diventando – tra le altre cose – il primo importatore di materie prime dall’Africa. Ad oggi Pechino è già al vertice della produzione globale di acciaio, ma resta ancora dipendente dall’Australia e dal Brasile per le importazioni del suo componente fondamentale, il ferro. Gli 8,6 miliardi di tonnellate custoditi dai monti Simandou sarebbero abbastanza per costruire tutti gli aeroporti, i grattacieli, le navi mercantili e le armi cinesi per sette anni, sottolinea Bloomberg.

Il rovinoso impatto ambientale delle miniere

Queste mire espansionistiche, però, sembrano non tenere in considerazione un aspetto: le attività estrattive possono rivelarsi devastanti per l’ecosistema. È accaduto nella Repubblica Democratica del Congo, dove le miniere di rame e cobalto (per il 70 per cento di proprietà cinese) hanno lasciato in eredità un degrado ambientale definito “allarmante” dalle Nazioni Unite.

“Quando queste compagnie cinesi arrivano in un paese come la Guinea, dove il governo e lo stato di diritto sono molto deboli, si avvantaggiano della fragilità delle istituzioni per svincolarsi dalle limitazioni di legge”, spiega a Bloomberg Jingjing Zhang, avvocata ribattezzata come la Erin Brockovich cinese, fondatrice dell’organizzazione no profit Center for transnational environmental accountability che indaga proprio sull’impatto ambientale degli investimenti cinesi all’estero.

A settembre del 2021 il Guinea è stato teatro di un colpo di stato, il terzo in quarant’anni. Prendendo il potere, i militari hanno bloccato alcuni progetti minerari, tra cui quello di Rio Tinto proprio nei monti Simandou, dubitando del fatto che fossero nell’interesse della nazione.

Abbattere alberi sui monti Simandou
Per scavare le miniere sui monti Simandou sarà necessario abbattere migliaia di alberi © mihtiander/iStockphoto

Tanti rischi per la biodiversità, pochi benefici per la popolazione

E i monti Simandou sono uno degli ecosistemi più ricchi di biodiversità del continente africano. Ospitano la più grande popolazione rimasta di scimpanzè occidentali (Pan troglodytes verus), classificati come “in pericolo critico” nella Lista rossa dell’Unione internazionale per la protezione della natura (Iucn). I piani di costruzione delle miniere a cielo aperto, che dovrebbero prendere il via nel 2025, prevedono l’abbattimento di alberi su un’estensione di 736 chilometri quadrati. Senza contare il viavai di camion, i generatori diesel in funzione, le fuoriuscite di acidi e metalli pesanti. I villaggi coinvolti saranno 450.

Interpellati da Bloomberg, i rappresentanti della ong locale Action Mines Guinée non si dicono contrari a priori alle attività estrattive, considerata la loro importanza per l’economia. Chiedono, però, che siano “responsabili”. L’approccio adottato finora, però, non fa ben sperare. C’è addirittura chi sospetta che le imprese cinesi abbiano bypassato le valutazioni di impatto ambientale che in teoria sarebbero indispensabili per ottenere il via libera.

Al confine con la Sierra Leone, da marzo 2021 gli operai hanno iniziato a far esplodere la dinamite per scavare un tunnel, senza nemmeno avvisare gli abitanti della zona. C’è chi si è trovato i muri della casa danneggiati, senza ricevere nulla in cambio. E c’è chi si è visto espropriare la casa in cui viveva o la fattoria che era la sua unica fonte di reddito, ricevendo in cambio poco meno di 1.200 euro. Somme risibili. D’altra parte, finora il potere contrattuale degli abitanti è stato pressoché nullo. Ora le ong ripongono le loro speranze nei militari che hanno preso il potere a settembre. Se il nuovo governo non adotterà un approccio più deciso nei confronti delle compagnie minerarie, sostiene Action Mines Guinée, si rischia una “catastrofe ecologica”.

Il governo militare della Guinea ferma tutto, per ora

E alla fine, il 3 luglio, dal governo militare della Guinea è arrivato lo stop a tutte le operazioni minerarie nei monti Simandou. I motivi, tuttavia, non sono ambientali. Già a marzo in realtà l’esecutivo si era rivolto tanto al consorzio cinese quanto a Simfer, sussidiaria locale di Rio Tinto, chiedendo loro di collaborare per la costruzione delle infrastrutture indispensabili per l’operatività della miniera, inclusa la linea ferroviaria da 670 chilometri e il porto. Le due imprese hanno siglato un primo accordo che tuttavia non si è mai consolidato in una vera e propria joint venture. Stando ad al-Jazeera, che riporta la notizia, le due aziende non si sarebbero trovate d’accordo sulle condizioni imposte, in primis quella di riservare allo Stato una quota del 15 per cento tanto sulle risorse minerarie quanto sulle infrastrutture. Hanno quindi mancato la scadenza fissata – e già prorogata – dal governo, e quest’ultimo ha reagito bloccando le loro attività.

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