Grazie alla tecnologia lidar sono state scoperte migliaia di strutture maya in Messico. Ci sono ancora molte rovine sepolte nella giungla.
Com’è andato il viaggio di papa Francesco in Bangladesh e Birmania, che alla fine ha detto la parola “rohingya”
Cosa c’è da sapere per capire meglio il viaggio che papa Francesco sta compiendo in Birmania e in Bangladesh. Tra violenze contro i cristiani kachin e contro i musulmani rohingya. Tutte le questioni in sospeso.
Aggiornato il 4 dicembre – “Rohingya”. Il Papa ha restituito al popolo cacciato dalla Birmania (Myanmar) il nome che ha scelto per sé. Lo ha fatto, visibilmente provato, da un palco in Bangladesh, seconda tappa del viaggio conclusosi il primo dicembre. Come auspicato e previsto, il Pontefice non poteva negare ciò che aveva apertamente affermato nei mesi scorsi: “I rohingya sono nostri fratelli”.
Rohingya, il nome restituito da papa Francesco
Così ha detto il Papa in Bangladesh, paese poverissimo che ha accolto oltre 700mila profughi musulmani dallo stato birmano del Rakhine: “Continuiamo ad aiutarli. Continuiamo a muoverci perché siano riconosciuti i loro diritti. Non chiudiamo il nostro cuore. Non guardiamo da un’altra parte”.
Lo sguardo cupo, i tratti seri, inevitabile per gli ascoltatori non pensare ad Aung San Suu Kyi. Sul volo di ritorno da Dacca, Francesco ha spiegato meglio i retroscena delle sue visite. Ha chiarito che, per entrare nelle stanze del potere birmano e tenere i colloqui politici programmati, non ha potuto pronunciare il termine rohingya. Ha, però, aggiunto che gli incontri sono stati importanti. Bergoglio ha sottolineato che anche in Bangladesh alcuni non volevano che i rohingya salissero sul palco, ma che lui si è arrabbiato e che, mentre alcuni profughi parlavano, ha pianto.
Nel frattempo, si sono ipotizzate varie soluzioni per i rifugiati. L’incertezza continua a sovrastare le loro fragili condizioni di esuli. Aung San Suu Kyi ha parlato di rimpatri, che però non sarebbero accettabili in nuovi campi in Myanmar (cioè controllati dallo stesso governo che ne ha permesso la pulizia etnica), né possibili per individui che, nel Paese in cui vivono da generazioni, non hanno mai ottenuto – ingiustamente – la cittadinanza. Si è parlato anche di un’isola bengalese dove spostarli, ma questa iniziativa ricorda le tragiche deportazioni messe in atto dai governi australiani in alcune isole degli oceani Pacifico e Indiano: Nauru, Manus Island e Christmas Island, quest’ultima una sorta di Lampedusa australiana.
A fine viaggio, si può anche dire che più che sotto pressione, il Papa si sia trovato sotto minaccia. I monaci fondamentalisti (che predicano l’odio contro i musulmani) avevano ordinato all’erede di San Pietro di non dire “rohingya”, con il ricatto di eventuali ripercussioni sui cristiani del Myanmar. Un messaggio di inaudita violenza, che va riferito al contesto locale. Nel Myanmar, governato da giunte militari per cinquant’anni, gran parte della popolazione subisce ancora gravi abusi (lavoro forzato, costrizione al lavoro minorile e alla schiavitù, tratta, uccisioni e arresti sommari, repressione delle contestazioni, ecc.) e il nazionalismo è di natura sia etnica che religiosa (buddista), oltre che radicato ed estremo.
Papa Francesco ha scelto di “parlare piano piano” e di non incontrare i guerriglieri dell’Arsa che dicono di difendere il loro popolo, sposando la tesi che siano “terroristi”, anche se abbiamo spiegato perché sia più corretto chiamarli “insorti”. Ha detto che l’aggressività di alcuni media interrompe il dialogo, ma senza media e ong non si sarebbe venuti a conoscenza di questa tragedia, riconosciuta per esempio da alcune agenzie Onu, Human Rigts Watch, Fortify Rights e Amnesty International.
Proprio perché secondo i trattati internazionali non esistono crimini contro l’umanità di serie B, alcuni osservatori chiedono adesso alle autorità internazionali competenti – come il Consiglio di Sicurezza Onu – che siano condannati e puniti i mandanti, gli esecutori e i complici delle persecuzioni decennali contro i rohingya, degenerate negli ultimi cinque anni in pulizia etnica e probabile genocidio.
Il viaggio di papa Francesco e tutte le questioni aperte, dai kachin ai rohingya
È un terreno minato quello su cui si sta muovendo papa Francesco nel suo viaggio in Myanmar (Birmania), cominciato il 27 novembre. Gli osservatori di tutto il mondo lo seguono con molte aspettative e domande. Non tutte, probabilmente, avranno una risposta. Almeno, non a breve termine. Regnano incertezza e prudenza. Nella sua missione per il dialogo interreligioso nel Paese asiatico composto da almeno 135 etnie, il Pontefice dovrà affrontare o gestire due grandi questioni aperte: il conflitto in corso tra esercito e guerriglieri della minoranza cristiana kachin e la pulizia etnica, degenerata secondo nuovi rapporti in genocidio, contro i musulmani rohingya.
Papa Francesco sotto pressione in Birmania
Cosa dirà papa Francesco ai vertici militari del Myanmar? Cosa ha già detto, a porte chiuse, al comandante in capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing, ritenuto primo responsabile di crimini contro l’umanità? Pronuncerà, prima o poi, il termine “rohingya”, vietato dalle autorità? Stando a ciò che è accaduto finora, quasi sicuramente no. Non lo ha fatto neanche oggi, davanti ad Aung San Suu Kyi, dove ha chiesto in modo generico il rispetto di ogni gruppo religioso. E sarà per lui altrettanto complesso farlo domani, al cospetto del consiglio supremo “Sangha” dei monaci buddisti.
Leggi anche: Rohingya, il popolo della Birmania più perseguitato al mondo
In questo suo 21esimo viaggio pastorale, il primo in Myanmar, sembra che a Francesco si chieda di trasformarsi in un equilibrista della diplomazia. Il cardinale birmano Charles Maung Bo gli ha consigliato di “non dire un termine molto controverso”, ma anche il nome che un popolo si è scelto da decenni, forse secoli, e contro il quale si è innescata una spirale persecutoria.
In pochi mesi oltre 600mila rohingya, civili, sono stati costretti a fuggire nel vicino Bangladesh, a causa di attacchi, incendi, espropriazioni, stupri per mano di militari, forze di sicurezza e squadroni armati di buddisti dello stato del Rakhine, l’etnia maggioritaria nella zona dove vivono i rohingya. Se si aggiungono i 307.500 profughi, che avevano trovato in Bangladesh un riparo di fortuna nei mesi precedenti, si può facilmente calcolare che ormai quasi tutta la popolazione rohingya, di un milione di abitanti, abbia lasciato il Myanmar, con la forza.
Perché il razzismo ha inquinato la Birmania?
In Birmania, dove il 68 per cento degli abitanti è di etnia bamar (birmana) e il 90 per cento di religione buddista, il razzismo ha infettato gran parte della gente. Tutto è cominciato nel 2012, durante la transizione dalla dittatura militare alla democrazia, quando la propaganda dei falchi ultra-nazionalisti del regime e dei movimenti buddisti fondamentalisti è risultata molto efficace, in particolare i discorsi di MaBaTha guidato dal monaco Ashin Wirathu del grande centro religioso di Mandalay.
https://www.youtube.com/watch?v=x6eZhoK3svU
Papa Francesco aveva già difeso apertamente i rohingya nell’angelus del 27 agosto scorso, ma in territorio birmano egli si trova nel mezzo di una fragilissima riconciliazione nazionale. “Sono arrivate tristi notizie sulla persecuzione della minoranza religiosa dei nostri fratelli rohingya”, aveva detto in piazza San Pietro a Roma. “Vorrei esprimere loro tutta la mia vicinanza. Tutti noi chiediamo al Signore di salvarli e di ispirare gli uomini e le donne di buona volontà perché li aiutino e perché tutti i loro diritti siano rispettati”.
A Francesco si chiede una missione impossibile? Ci attendono colpi di scena? Non resta che aspettare. Giunto nella capitale Yangon, Bergoglio resterà in Myanmar fino a domani, per poi ripartire per il Bangladesh giovedì 30. Il ventunesimo viaggio pastorale di Francesco terminerà sabato 2 dicembre. In gioco ci sono i rapporti diplomatici restaurati dalla Santa Sede solamente lo scorso maggio con il “bicefalo” governo birmano, in gran parte controllato dai militari e in porzione minoritaria guidato dalla Nobel per la Pace e paladina democratica Aung San Suu Kyi.
Il dramma dei cristiani kachin
La visita del Papa è anche l’occasione per accendere i riflettori su un conflitto “a bassa intensità” che affligge i cristiani del Myanmar, 6 per cento di una popolazione di 51 milioni di abitanti. E fra i quali, l’un per cento è cattolico. Il direttore della Caritas locale, Win Tun Kyi, ha dichiarato che per i 120mila sfollati kachin, soprattutto cristiani che vivono in campi da sei anni, “non c’è mai stata la minima attenzione da parte della comunità internazionale, che interviene solo quando sono in corso picchi alti delle crisi”.
In realtà, la questione è più complessa. I mezzi d’informazione internazionali e le organizzazioni umanitarie si sono sempre occupate della popolazione oppressa dai militari, birmana o di altre etnie, in varie zone del Paese. E contro i rohingya le persecuzioni hanno raggiunto l’apice della deportazione totale, con un prevedibile e legittimo innalzamento dell’attenzione. Semmai, sono gli attori economici e politici ad aver trascurato e ignorato gravi violazioni dei diritti umani, perché non rientravano nelle loro agende. Alcune amministrazioni occidentali (Unione europea, Stati Uniti e Regno Unito) hanno avuto il merito di accompagnare Aung San Suu Kyi nella sua lotta per la democrazia, ma anche di sostenerla quando negava la pulizia etnica e i crimini dei militari contro i rohingya.
I kachin vivono nell’omonimo stato nel nord, ricco di pietre preziose come la giada e nelle cui miniere sono stati scoperti sfruttamenti disumani, anche da parte di aziende straniere. A partire dal 2011 la stessa ong Fortify Rights, che parla di genocidio contro i rohingya, ha documentato contro i civili kachin l’uso sistematico della tortura da parte delle autorità birmane, oltre a uccisioni e aggressioni (rimaste impunite) compiute dall’esercito governativo. La guerra fra il regime militare e i guerriglieri indipendentisti del Kachin independence army (Kia) dura dal 1965 e coinvolge anche parte dello stato Shan.
I primi cristiani arrivarono nell’attuale Myanmar ai tempi della colonizzazione portoghese. L’evangelizzazione ad opera di missionari stranieri proseguì nel diciassettesimo secolo anche fra le popolazioni più remote. Una battuta d’arresto alle conversioni arrivò proprio con l’instaurazione della prima giunta militare nel 1962. I missionari dovettero lasciare il Paese e le loro scuole furono nazionalizzate. Quindi è un traguardo “rivoluzionario” che Bergoglio arrivi adesso in Myanmar con un primo nunzio apostolico.
Intanto, al secondo giorno di viaggio, fra gli osservatori la tensione è palpabile. Ci si chiede se basti questa “rivoluzione” o se oltre frontiera, nel musulmano Bangladesh, dove è stato espulso quasi un intero popolo, il Papa potrà chiamare ancora una volta i profughi rohingya “fratelli”.
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