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Vengono chiamate “damas” e scendono nelle piazze per danzare. Nonostante le critiche, queste donne cinesi stanno costruendo i nuovi canoni della vecchiaia.
Sono vestite con abiti coloratissimi e due volte al giorno, la mattina e la sera, occupano le piazze del paese per ritrovarsi e danzare a ritmo di musica, rigorosamente ad alto volume. Le dancing grannies, le “nonne danzanti”, sono un fenomeno diffuso in tutta la Cina da oltre vent’anni e ripetutamente finiscono sui giornali, anche internazionali, per le reazioni che scatenano tra gli abitanti del quartiere. Per lo più si tratta di azioni di protesta contro la musica assordante.
Spesso la notizia riguarda l’esito e la dinamica degli scontri che vanno dal tragico al pittoresco, ma raccontano anche dell’ennesima trovata per silenziare e boicottare questa ritrovo quotidiano. L’ultimo strumento tecnologico, riportato da testate giornalistiche in giro per il mondo, è un dispositivo capace di disattivare a distanza le casse delle ballerine, un prodotto che pare abbia sbancato sul web, scatenando la corsa all’accaparramento.
Suscitano ilarità, tenerezza, ammirazione, così come possono sembrare eccessive, folkloristiche, libertine o semplicemente fastidiose. Il tema veramente interessante, però, ruota intorno alla domanda: perché hanno questa visibilità sui media e fanno così discutere? Riassumendo si potrebbe dire che il motivo è che non abbracciano i canoni socialmente accettati in Cina, ovvero quelli della signora di mezza età, sessualmente non più appetibile, ritirata tra le mura domestiche, servile e a disposizione, dedita alla cura dei nipoti e dell’economia famigliare.
Oltre a non collimare con il modello cinese di invecchiamento, però, l’interesse della stampa internazionale – dal Guardian alla Cnn – denota una distanza simile con il modello occidentale, solo con una nota aggiuntiva di esotismo. In altri termini, quello che è emerge è che la dimensione della vecchiaia è da reinventare a livello globale e “le nonnine danzanti” stanno contribuendo a questo processo.
“Dama”, che letteralmente vuol dire “grande mamma”, è il termine con cui furono definite le signore di mezza età che nel 2013, in Cina, iniziarono ad investire tutti i risparmi nell’acquisto di oro dopo che il prezzo era crollato provocando, secondo alcuni, una sorta di tsunami che fece tremare addirittura Wall Street. Ma se la questione dell’oro è oramai quasi completamente dimenticata, il termine “dama” ha invece acquisito un significato tendenzialmente dispregiativo.
Teng Wei, direttrice del Centro studi culturali contemporanei della South China normal university, ha studiato da un punto di vista sociologico il valore semantico di questa parola, definendola: “Un’utile scorciatoia per descrivere le donne di mezza età che si rifiutano di adottare i modi aggraziati e materni che la società cinese si aspetta alla loro età. Quasi tutte le donne recalcitranti che vanno avanti con gli anni corrono il rischio di essere etichettate come ‘damas’. Spesso si trovano ritratte come pettegole, egoiste e del tutto prive di gusto, oltre ad essere il capro espiatorio di tutta una serie di mali sociali”.
La conclusione di Teng Wei è decisamente netta: “Quando usiamo ‘dama’ come insulto, ciò che stiamo realmente facendo è suggerire che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nell’essere una donna di mezza età. È discriminatorio, classista, ed è ora di smettere”.
Ritrovarsi quotidianamente nelle piazze per danzare è senza dubbio l’occasione per tessere nuove relazioni, fare esercizio fisico gratuitamente e, perché no, mostrare la propria femminilità. L’età delle donne che partecipano a questi ritrovi si sta abbassando sempre di più; spesso hanno anche meno di cinquant’anni e, a maggior ragione, definirle “nonne” è fuorviante. Dietro a questa abitudine ormai consolidata e diffusa, c’è anche la necessità di colmare un vuoto, quello lasciato da una società che da un lato è cambiata radicalmente e in tempi rapidi, ma dall’altro fatica ad abbandonare i suoi stereotipi.
Per Claudia Huang, antropologa dell’Università della California che ha condotto una ricerca etnografica durata diciotto mesi a Chengdu, vicino all’altopiano tibetano, “queste donne stanno cercando di ritagliarsi nuove identità perché non hanno modi riconoscibili o realizzabili per invecchiare”. Scrive Huang: “Tali tentativi non sono sempre ben compresi o accolti favorevolmente dal pubblico cinese. I rapidi mutamenti sociali hanno portato al declino dello status sociale degli anziani, ma le aspettative di genere che limitano la capacità delle donne di vivere secondo i propri desideri sono rimaste pervasive”.
Sotto la spinta della modernizzazione, la riforma economica avviata nel 1978 da Deng Xiaoping ha portato alla ristrutturazione e alla privatizzazione di migliaia di imprese statali. Sempre Huang, nella sua ricerca, scrive che le lavoratrici donne hanno subito le conseguenze più negative di tali riforme: molte si sono viste liquidate perché vincolate alla famiglia e quindi meno produttive, impossibilitate a trasferirsi in altre città e incapaci di adeguarsi al cambiamento.
Il risultato è una generazione di donne che a quarant’anni si sono trovate in pensione forzata, lontane però dal riconoscersi e dall’accettarsi come tali, cioè come pensionate. A questo si deve aggiungere la politica del figlio unico che ha scardinato il modello familiare facendo scomparire anche il ruolo degli anziani come figure di riferimento per i figli e i nipoti.
Questa lettura, che emerge dal caso delle “nonne danzanti” cinesi, offre spunti di riflessione interessanti e affini anche per un ragionamento su scala globale. Molte società stanno rapidamente invecchiando e la “Silver economy”, ovvero l’economia che investe nella terza età come generazione di consumatori di primo ordine, ha aperto alla possibilità di scegliere come invecchiare.
Huang cita il caso emblematico di Emile Ratelband, un pensionato olandese di 69 anni che nel 2018 chiese al governatore di cambiare la sua età anagrafica, portandola a 49. Il signor Ratelband denunciava la discriminazione dovuta all’età subita in ambito lavorativo, oltre al fatto di sentirsi, fisicamente e mentalmente, di un’età compresa tra i 40 e i 45 anni; condizione confermata anche dal suo medico curante. La risposta della corte olandese fu ovviamente negativa, pur riconoscendo la diffusa tendenza sociale a sentirsi pienamente in forze anche se avanti con gli anni e la libertà di percepire la propria età in modo totalmente personale. Ma sulla carta gli anni non si cambiano.
Se il caso del signor Ratelband ha strappato più di un sorriso, allo stesso modo Huang sottolinea che la maggior parte delle “nonne danzanti” è comunque “consapevole che i loro sforzi per creare un nuovo tipo di vecchiaia sembrano ridicoli ad altri. Creando un’estetica di genere dell’invecchiamento che riflette e risponde alle loro esperienze generazionali, queste donne ci stanno sfidando a ideare un nuovo modello di vecchiaia. Le ‘damas’ hanno dimostrato che è possibile tracciare un nuovo corso nel viaggio della vita. Quando le persone più giovani immaginano se stesse più anziane, ora c’è una gamma più ampia di possibilità”.
Esistono “nonne danzanti” anche in altri paesi, come il gruppo di Milwaukee negli Stati Uniti. Ma il ballo è solo un’opzione tra mille e la ricerca di una nuova identità riguarda tanto le donne quanto gli uomini. Il punto è che sono sempre di più le persone che vogliono tornare ad essere protagoniste della propria vita, al di là dell’età anagrafica, dell’imbarazzo e del giudizio che possono suscitare negli altri per le loro condotte inaspettate. Stanno aprendo delle strade e lo stanno facendo per tutti.
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