Gli Shuar sono una tribù indigena dell’Amazzonia dell’Ecuador e in parte del Perù. A causa della presenza di rame nei loro territori, la loro cultura e le loro foreste sono a rischio.
Ruanda, cento giorni di lutto per commemorare i 25 anni dal genocidio
Sono passati 25 anni dall’inizio del genocidio in Ruanda. La nazione africana commemora la ricorrenza ancora ferita, ma di nuovo unita.
Cento giorni di lutto nazionale. È così che, da domenica 7 aprile, il Ruanda ha deciso di commemorare i 25 anni dal terribile genocidio che ha segnato per sempre la storia del paese africano. Cento giorni: tanto quanto durò, tra i mesi di aprile e giugno del 1994, il massacro della popolazione di etnia tutsi, da parte degli hutu.
In quei drammatici mesi, l’odio razziale e la follia di un pugno di estremisti riuscirono a scatenare una violenza inaudita. Il bilancio della carneficina, mai accertato del tutto, è stato di oltre 800mila morti. Forse più di un milione. In gran parte uccisi a colpi di machete.
“Fu un fallimento della comunità internazionale”
Il presidente del Ruanda, Paul Kagame, assieme al presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, e a quello della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, si sono riuniti nella capitale Kigali per dare il via alle celebrazioni. Tre ragazzi di 25 anni (l’80 per cento della popolazione non supera tale età) hanno portato simbolicamente al capo di stato africano una fiaccola, che rimarrà accesa per tutto il periodo.
“Nel Ruanda sta tornando al luce, ma non dimentichiamo il passato”, ha affermato il leader europeo. Mentre il primo ministro del Belgio, Charles Michel, ha preso la parola presentando le scuse della propria nazione, poiché a suo avviso il crimine “è stato anche frutto di un fallimento della comunità internazionale”.
Numerosi responsabili del genocidio sono ancora liberi
Poco prima, presso il Memoriale di Kigali, costruito alla fine degli anni Novanta e inaugurato nel 2004, erano stati depositati dei fiori. È qui che riposano i resti di almeno 250mila vittime. Si tratta di uno dei 267 siti commemorativi del paese. Alla cerimonia erano presenti numerosi capi di stato africani, tra i quali Denis Sassou-Nguesso (Congo), Mahamadou Issoufou (Nigeria), Idriss Déby (Ciad) e Ismaïl Omar Guelleh (Gibuti).
As we remember victims of the genocide in #Rwanda on the 25th anniversary of the atrocity and pledge to #NeverForget, let’s also commit to challenging the language, policies, and ideologies that precede genocide. https://t.co/FJN4gfSTFj
— The King Center (@TheKingCenter) 7 aprile 2019
Il presidente della Commissione nazionale per la lotta contro il genocidio, Jean-Damascène Bizimana, ha in questo senso ricordato come “all’epoca, malgrado i segni premonitori, nessuno si mosse”. E non ha esitato a puntare il dito contro “quegli Stati che ancora oggi rifiutano di giudicare i criminali o di estradarli”. Un’allusione diretta alla Francia, nella quale secondo il dirigente “alcuni responsabili del genocidio risiedono senza alcun timore della giustizia”.
“Oggi il Ruanda è tornato ad essere una famiglia”
Ma il discorso più atteso era quello di Kagame. Cieca trenta minuti nel corso dei quali il leader africano ha insistito sul concetto di riconciliazione: “Oggi il Ruanda è tornato ad essere una famiglia. Ciò che è accaduto non si ripeterà più”. Il presidente ha quindi abbracciato idealmente i sopravvissuti e ringraziato i criminali che si sono pentiti, ammettendo le loro azioni.
800,000. That’s how many Tutsi were massacred in Rwanda 25 years ago in just 100 days. Let’s make sure it never happens again. pic.twitter.com/FuSOm998pP — Xavi Ruiz ? (@xruiztru) 7 aprile 2019
Quindi ha attaccato con forza i negazionisti: “Vogliono farci soffrire ancora, ma non glielo permetteremo. A nessuno sarà permesso di sminuire quanto accaduto. Nel 1994 non esisteva speranza, c’erano solo tenebre. Oggi noi ruandesi siamo riusciti a costruire un nuovo inizio. Basato su uno stato di commemorazione permanente. Ogni giorno. In tutto ciò che facciamo. Così, a venticinque anni di distanza, siamo qui. Tutti. Feriti e con il cuore a pezzi. Ma non sconfitti”.
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