Parigi, 1831. Un quadro esposto al Salon, l’esposizione biennale che si teneva all’epoca al Louvre, viene acquistato dal governo francese per tremila franchi. Il motivo: esporlo al Palais du Luxembourg, oggi sede del Senato transalpino, come monito nei confronti di Luigi Filippo, duca d’Orléans, sovrano succeduto a Carlo X, costretto alla fuga. Quel quadro era La Liberté guidant le peuple (La Libertà che guida il popolo), celeberrimo dipinto di Eugène Delacroix. Divenuto col tempo un inno alle mobilitazioni sociali, al diritto alla protesta, allo sciopero, alla rivendicazione popolare.
“La libertà che guida il popolo” e la lotta sociale che si fa simbolo
Due anni prima, Carlo X aveva affidato a Jules de Polignac, capo della Congregazione, la costituzione di un governo clericale e reazionario. L’esecutivo, di matrice autoritaria, sciolse il parlamento, ristabilì la censura, varò una legge elettorale a vantaggio dell’aristocrazia. Di fronte ad una tale sequenza di atti liberticidi, il popolo francese si ribellò. Nacquero le cosiddette “Tre giornate gloriose”, dal 27 al 29 luglio 1830, e la Rivoluzione di luglio.
Dapprima gli emarginati, gli operai, gli studenti, quindi i commercianti, gli artigiani e gli impiegati si sollevarono contro l’autorità. Parigi fu punteggiata di barricate. Gli insorti svuotarono le armerie intonando la Marsigliese. La mattina del 29 l’Hôtel de Ville, la sede del Comune di Parigi, era già stata conquistata dai manifestanti. Carlo X in breve dovette licenziare i ministri, revocare le ordinanze liberticide, abdicare e fuggire all’estero.
Tutto ciò fu riassunto, appunto, ne “La libertà che guida il popolo”. E fu fatto in modo magistrale. Delacroix raccolse nel dipinto tutte le classi sociali che, insieme, si ribellarono contro il potere costituito. Guidate dalla Marianne, simbolo dell’unità nazionale e della stessa libertà: una bandiera nella mano destra, un fucile nella sinistra, nella rappresentazione del pittore.
La “passione” dei francesi per la piazza
Sono passati quasi due secoli da allora. Ancor più tempo dalla Rivoluzione del 1789. E qualsivoglia paragone con le manifestazioni popolari e i movimenti sociali che hanno cadenzato la vita politica della Francia nel Novecento e oltre è ovviamente impensabile. La piazza (o meglio la rue, la strada), però, è qualcosa che affonda fortemente le proprie radici culturali nella storia francese. Il riverbero ha attraversato i grandi scioperi degli anni Trenta, il maggio 1968, la fine del Ventesimo secolo e anche i giorni nostri.
In un recente articolo, peraltro critico nei confronti della “passione” dei francesi per la piazza, il settimanale tedesco social-liberale Die Zeit offre un’analisi parziale, dalla quale però si evince chiaramente la difficoltà che chi vive a Berlino ha nel capire fino in fondo cosa succeda a Parigi, a Marsiglia, a Lione o a Bordeaux in questi giorni: “Centinaia di migliaia di persone – scrive il settimanale si radunano per le strade, cantano, si congelano e trascorrono ore insieme, anche se potrebbero facilmente sfogare la loro rabbia con un post su Twitter”.
Gli scioperi contro la riforma delle pensioni voluta da Emmanuel Macron
Il riferimento è alla gigantesca ondata di proteste e scioperi che sta attraversando in queste settimane la Francia: tre milioni e mezzo di persone si sono presentate in piazza secondo i sindacati. Ovunque sul territorio nazionale, per dire “no” alla riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron, che innalza l’età pensionabile da 62 a 64 anni (la cui approvazione definitiva è prevista per giovedì 16). Di fronte alla quale per i francesi, evidentemente, non è possibile limitarsi a qualche tweet, che Die Zeit lo capisca o meno.
Quoi qu’on tente de vous dire cette manifestation est énorme ! Deux trajets bondés jusqu’à Bastille. Les français savent encore se mobiliser Je les reconnais et ça fait plaisir à voir ! 👍👏🏻👏🏻👏🏻 pic.twitter.com/NDzjpdnW0T
Perché per i francesi la rue est la rue, la piazza è la piazza. “In nessun altro paese in Europa le manifestazioni hanno svolto un ruolo politico così centrale come in Francia”, ha osservato Danielle Tartakowsky, una delle più eminenti storiche dei movimenti sociali, a lungo presidente dell’università Paris 8.
La studiosa sottolinea come negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, proprio grazie agli scioperi sia stato possibile bloccare numerosi progetti governativi. Mietendo anche vittime politiche di primo piano. È come se ogni manifestazione, secondo Tartakowsky, avesse assunto all’epoca carattere di “referendum spontaneo”.
Lo sciopero, la grève in francese, è infatti parte integrante della vita della maggior parte dei cittadini transalpini. La stessa parola viene dal latino popolare grava, che può voler dire “ghiaia”, “spiaggia”. È il nome che fu dato a una piazza situata lungo la Senna, a Parigi (oggi place de l’Hôtel-de-Ville – Esplanade de la Libération) nella quale gli operai disoccupati si riunivano per tentare di trovare un impiego. E che a partire dal Diciannovesimo secolo è diventato il luogo delle proteste, della contestazione, della richiesta di migliori condizioni di lavoro. Così, il senso stesso di grève si invertì: da qui l’espressione faire grève, scioperare. Anche se i primi a incrociare le braccia, in Francia, arrivarono molti secoli prima.
I primi scioperi già nel Medioevo
Nel Medioevo alcuni scioperi corporativisti si scatenarono in Europa tra alcune categorie di artigiani e di operai, che volevano difendere il monopolio nelle loro attività. Nel 1280, ad esempio, a Rouen uno sciopero dei drappieri si concluse con l’uccisione del sindaco. Nel 1511, a Bordeaux, gli operai addetti al cantiere della cattedrale di Saint André si rifiutarono di lavorare e sabotarono le infrastrutture per ottenere dal clero migliori paghe e migliori condizioni. Nello stesso secolo, scioperarono per anni gli stampatori di Lione.
Ma fu sotto il regno di Luigi XVI che si moltiplicarono i casi. Dai carpentieri ai pittori, dai rilegatori ai fabbricanti di cappelli. Era la fine dell’Ancien régime. Paradossalmente, però, la rivoluzione del 1789 rese a lungo illegale lo sciopero. La legge Le Chapelier, approvata nel luglio del 1791, vieta le corporazioni e ogni tipo di organizzazione operaia. Ciò nonostante, nei primi decenni dell’Ottocento si registreranno delle proteste: la più famosa fu la Rivolta dei Canuts (i tessitori di seta) a Lione, con gli operai che, assieme a parte della guardia nazionale, riuscirono ad impadronirsi militarmente della città. Oggi a Lione esiste un’emittente che si chiama Radio Canut e che non nasconde la sua vocazione “ribelle”. Mentre la storia dei tessitori fu cantata da Aristide Bruant nel 1894 nella celeberrima Le chant des canuts.
Il Novecento e lo storico sciopero del 1936
È però tra la fine dell’Ottocento e il Novecento che lo sciopero si trasforma, incarnando le speranze del sindacalismo nello “sciopero generale insurrezionale”. La cui data simbolica è quella del 1 maggio, dopo la repressione sanguinosa dello sciopero di Chicago, negli Stati Uniti, nel 1886. Sulla scia della rivoluzione russa del 1917, i tentativi di rovesciamento del potere si moltiplicarono in Europa. In Francia, all’inizio della Prima guerra mondiale, le donne parteciparono per la prima volta attivamente: erano gli scioperi del 1917.
Nel maggio e nel giugno del 1936, mentre in Europa soffiavano ormai forti i venti delle dittature di estrema destra, a Parigi trionfa la sinistra del Fronte popolare. I cittadini francesi e i sindacati organizzano scioperi generali che sfoceranno negli accordi di Matignon, siglati sotto l’egida del presidente del Consiglio dei ministri Léon Blum, figura storia del socialismo francese, dallo Stato e dalla Confederazione generale della produzione, la Cgpf, assieme alla Confederazione generale del lavoro, la Cgt, ancora oggi esistente e primo sindacato transalpino. Ai lavoratori furono riconosciute le ferie pagate, le 40 ore massime di lavoro settimanale, e ingenti aumenti salariali. Ciò in cambio della fine degli scioperi.
Il Secondo dopoguerra e il momento in cui lo sciopero diventa leggenda: il maggio 1968
Dopo la Seconda guerra mondiale, invece, i grandi scioperi del 1947 saranno repressi con violenza dal governo. Eppure, due anni dopo, la Cgt lancia uno sciopero generale, seguito da un altro grande sciopero nel 1953, contro un progetto di riforma delle pensioni dei dipendenti pubblici. Un movimento di dimensioni epocali attraversa, per la prima volta nel secondo Dopoguerra, la Francia intera. E, letteralmente, la paralizza. Fino a costringere il governo a ritirare la proposta.
Niente però a che vedere con ciò che accadrà nel 1968. Il mese di maggio è ormai entrato nella storia del paese: ancora oggi viene regolarmente evocato, non soltanto da chi lo visse in prima persona. Ed è diventato, di fatto, una leggenda. Scatenata dagli studenti, la protesta si trasforma in breve in uno sciopero generale. Quasi dieci milioni di persone incrociarono le braccia: mai era accaduto qualcosa di simile. La Francia è, di nuovo, completamente bloccata, in ogni comparto: scuole, trasporti locali, pubblica amministrazione, università, ferrovie, grandi industrie.
I manifestanti occupano le fabbriche, gli uffici amministrativi. Ovunque vengono organizzate assemblee, forum di discussione. In un afflato contro il patriarcato, il paternalismo, le strutture autoritarie, il capitalismo, il consumismo, e il potere gollista al governo. Allo sciopero aderiscono praticamente l’intero mondo operaio e quasi tutte le altre categorie sull’intero territorio nazionale. Il sistema economico è congelato. E lo resterà finché il governo e il patronato non cederanno: i manifestanti otterranno un aumento del 35 per cento del salario minimo, del 10 per cento delle paghe, una riduzione dell’orario di lavoro settimanale, la creazione delle sezioni sindacali d’impresa e del delegato sindacale in ogni azienda con più di 50 dipendenti.
Lo sciopero del 1995 contro le riforme di Alain Juppé
Negli anni Settanta l’onda lunga del maggio 1968, il famoso Sessantotto, si farà sentire ancora, ma il decennio successivo vedrà per i movimenti sociali francesi l’inizio di una perdita di parte della partecipazione. La disillusione stava guadagnando terreno? Solo in parte, se si considera cosa è poi accaduto nel novembre del 1995. All’epoca il primo ministro Alain Juppé (presidenza di Jacques Chirac) lancia una doppia battaglia: da una parte l’ennesima riforma delle pensioni, dall’altra dei sistemi di protezione sociale di alcune categorie, inclusi i ferrovieri.
La Francia si mobilita di nuovo: i tassi di adesione agli scioperi raggiungono l’85 per cento. Ripetute giornate di manifestazioni paralizzano nuovamente l’economia nazionale, per quasi un intero mese. Il movimento culmina nella manifestazione del 12 dicembre, con più di due milioni di persone in piazza. E Juppé finisce per rinunciare alla riforma pensionistica.
Gli scioperi da conquista sociale a movimenti difensivi
Oggi la Francia è di nuovo in piazza, ancora una volta per un progetto di riforma delle pensioni E lo fa nonostante molti osservatori ritengano difficile immaginare che il governo e l’Eliseo possano rinunciare all’innalzamento dell’età pensionabile. I sindacati hanno tuttavia lanciato un appello al governo affinché “consulti il popolo”. E il principale leader dell’opposizione a Macron, Jean-Luc Mélenchon, ha chiesto che sia garantita “una via d’uscita democratica all’impasse”. Comunque andrà, ancora una volta la popolazione francese ha confermato la propria fiducia nella lotta sociale e sindacale, nello sciopero, nel manifestare.
Con una differenza però. Sostanziale: “Oggi gli scioperi sono quasi sempre difensivi – spiega Sylvain Boulouque, storico e specialista dei movimenti sociali –. Chi incrocia le braccia ormai non chiede qualcosa in più, mentre in passato gli scioperi erano momenti di conquista sociale”. Anche in Francia, perciò, benché la mobilitazione resti un elemento portante delle lotte, i lavoratori troppo spesso appaiono ormai convinti che il massimo che si possa fare è tentare di preservare ciò che si ha. In questo senso si può dire che nel corso dei decenni abbia in qualche modo “vinto” l’esempio di Margaret Thatcher, che riuscì ad imporsi (guarda caso proprio all’inizio degli anni Ottanta) in uno storico braccio di ferro, durato più di un anno, contro il principale sindacato del paese.
Le proteste del 2016 contro la precarizzazione del lavoro
È il caso ad esempio degli scioperi e delle proteste della primavera del 2016. Sette anni fa, i sindacati francesi e i principali partiti di opposizione al secondo governo diretto da Manuel Valls si scagliarono contro la loi Travail, la proposta di riforma del mondo del lavoro avanzata dalla ministra Myriam El Khomri. Anche in questo caso vengono organizzate manifestazioni imponenti. Ciò nonostante, il governo tira dritto, e addirittura decide di aggirare il parlamento attraverso l’utilizzo dell’articolo 49 della Costituzione francese, che consente di fatto di adottare una legge senza il voto dell’Aula (salvo se i deputati non decidano di approvare una mozione di censura, facendo così cadere l’esecutivo).
In questo modo, Valls e El Khomri evitarono una “giungla” parlamentare: numerosi esponenti della stessa maggioranza, in particolare alcuni parlamentari socialisti, i cosiddetti “frondisti”, avevano voltato le spalle al progetto di riforma e avevano sostenuto apertamente la contestazione. Che è rimasta viva nonostante la sconfitta annunciata. Nonostante i movimenti sociali siano ormai di stampo meramente “difensivo”. Nonostante la politica sembri ascoltare sempre meno le piazze. Nonostante rispetto ad alcuni decenni fa ci siano stati oggettivamente passi indietro, soprattutto in tema di lavoro. Perché la rue est la rue. E in Francia rimarrà certamente tale ancora a lungo.
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