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In occasione della Giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità, gli esempi di alcune nazioni che hanno intrapreso progetti ambiziosi per ripristinare il suolo.
Ogni anno, a causa di desertificazione, degrado del suolo e siccità, nel mondo vengono persi 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile, con gravi ripercussioni sulla vita di milioni di persone. Questo l’allarme lanciato dal segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, in occasione della Giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità che si celebra il 17 giugno. Il suolo è uno degli ecosistemi più complessi in natura, ospita un quarto della biodiversità del nostro pianeta e gli organismi che lo abitano ci forniscono indispensabili servizi ecosistemici, come il sequestro di carbonio e la depurazione delle acque. È pertanto necessario “ripristinare e proteggere il fragile strato di terra che copre solo un terzo della Terra, ma che può alleviare o accelerare la crisi che stanno affrontando il clima e la biodiversità”, ha affermato António Guterres.
L’obiettivo della giornata mondiale è quello di porre in primo piano il problema della desertificazione, per intensificare gli sforzi per contrastare gli effetti della siccità e per promuovere l’attuazione della convenzione delle Nazioni Unite contro la desertificazione (Unccd). L’edizione della giornata del 2019, il cui slogan è Facciamo crescere il futuro insieme, è dedicata a tre questioni chiave legate alla terra: siccità, sicurezza umana e clima.
Ripristinare i terreni degradati può costituire un’arma importante nella lotta ai cambiamenti climatici. Le pratiche di utilizzo del suolo, in particolare l’agricoltura, sono responsabili di quasi il 25 per cento delle emissioni globali totali, se restaurate le terre degradate potrebbero essere in grado di immagazzinare fino a tre milioni di tonnellate di carbonio ogni anno. La tutela del suolo avrebbe inoltre numerose ricadute positive. “Se interveniamo per ripristinare la terra degradata potremmo risparmiare 1,3 miliardi di dollari al giorno da investire nell’istruzione e nell’energia pulita e saremmo in grado di ridurre la povertà, i conflitti e le migrazioni ambientali”, ha affermato Ibrahim Thiaw, segretario esecutivo della Convenzione Onu contro la desertificazione.
L’errata gestione dei terreni, ha riferito Thiaw, ha causato negli anni il degrado di un’area con un’estensione pari a due volte la Cina. Alcune nazioni hanno però iniziato ad invertire questa tendenza e a intraprendere progetti ambiziosi per combattere la desertificazione.
Da tempo immemore gli abitanti di Dunhuang, città nella prefettura di Jiuquan, convivono con le tempeste di sabbia e l’incedere dei deserti del Taklamakan e del Gobi, tanto che nell’antico Libro degli Han viene descritto un “forte vento che soffia da nord-ovest, tingendo le nuvole di giallo”. La Cina ha iniziato a combattere la desertificazione nel 1978, quando il governo piantumò numerosi alberi per creare una sorta di cuscinetto verde tra i deserti e le città del nord. Nella Mongolia Interna, regione autonoma della Cina settentrionale caratterizzata da numerosi grandi deserti, dal 1981 ad oggi sono stati piantati oltre 1,7 miliardi di alberi su circa 400mila ettari di terreno. Nel 2018 il Paese asiatico ha inoltre avviato un massiccio piano di riforestazione che prevede di aumentare la copertura arborea del 23 per cento entro il 2020.
Un ulteriore impulso alla riforestazione, straordinario strumento per combattere la desertificazione e l’erosione del suolo, è giunto dalla tecnologia. La società Ant financial services ha lanciato l’app Ant forest, in grado di valutare l’impatto ambientale degli utenti. L’applicazione premia i comportamenti virtuosi, come l’uso di mezzi pubblici, con punti virtuali di “energia verde”. Dopo aver guadagnato un certo numero di punti gli utenti possono scegliere di riscattare un “albero virtuale” che è abbinato a un alberello reale che verrà poi piantato, a spese di Ant financial services, nelle sabbie del Gobi. Dal suo lancio nel 2016, Ant forest ha attirato circa 500 milioni di utenti, grazie ai quali sono stati piantati nelle regioni più aride della Cina cento milioni di alberi.
Le torbiere sono delle vere e proprie trappole per la CO2, capaci di immagazzinare grandi quantità di carbonio. Purtroppo questi preziosi ecosistemi sono minacciati in tutto il mondo dalle attività umane, nell’ultimo secolo e mezzo nessun altro ambiente naturale è stato distrutto, poiché ritenuto privo di valore, quanto le torbiere e le paludi. Oggi però la loro straordinaria importanza per affrontare la crisi climatica è stata compresa e alcune nazioni stanno cercando di rimediare agli errori del passato. In Bielorussia le torbiere occupano circa 2,5 milioni di ettari, ma solo 900mila conservano il loro stato naturale. Nel 1986 la regione di Mahilëŭ, nella parte orientale della Bielorussia, fu notevolmente colpita dal disastro di Chernobyl e ancora oggi deve affrontare gravi problemi ecologici: le torbiere ormai prosciugate e sovrasfruttate comportano un alto rischio di incendi che possono generare fumo radioattivo.
Per ridurre questo rischio nel 2018 la Bielorussia, con la collaborazione dell’Unccd e di una società di progettazione idrica regionale, ha avviato un progetto pilota che prevede il ripristino delle torbiere. Per farlo sono state realizzate alcune dighe sui vecchi canali di drenaggio per impedire la perdita di acqua dalla palude al fiume adiacente. Da allora il livello dell’acqua è aumentato di circa due metri, anche se occorreranno centinaia di anni per ripristinare gli antichi livelli di torba. La Bielorussia, grazie alla crescente consapevolezza dei molteplici benefici che le zone umide forniscono, come la regolazione del microclima e la conservazione della biodiversità, ha deciso di investire nel ripristino di queste aree degradate, creando una nuova legislazione incentrata sulla protezione e l’uso sostenibile delle torbiere. L’obiettivo è quello di restaurare almeno 60mila ettari di torbiere entro il 2030 e si prevede che tale sforzo consentirà alla Bielorussia di ridurre le proprie emissioni di CO2 di circa tre milioni di tonnellate.
La Grande muraglia verde è un’opera visionaria, un simbolo di speranza contro la grave minaccia della desertificazione. L’iniziativa, guidata dall’Unione africana, è stata avviata nel 2007 e mira a ripristinare una vastissima area degradata dell’Africa, contribuendo a migliorare la vita di milioni di persone che vivono in alcune delle aree più povere del mondo. Il progetto prevede di creare una vera muraglia di foresta che si estenderà per quasi 8mila chilometri, attraversando l’Africa in tutta la sua larghezza e diventando così la più grande struttura vivente del pianeta. L’obiettivo del progetto è quello di ripristinare cento milioni di ettari di terra attualmente degradata entro il 2030, sequestrare 250 milioni di tonnellate di carbonio e creare dieci milioni di posti di lavoro.
A oltre dieci anni dal suo avvio circa il 15 per cento della muraglia è stata piantata, e si sono già riscontrati importanti progressi nel ripristinare la fertilità delle terre del Sahel, territorio dell’Africa sub-sahariana. In Etiopia, ad esempio, sono stati ripristinati 15 milioni di ettari di terre degradate, in Senegal sono stati piantati oltre 11 milioni di alberi, mentre in Nigeria sono stati creati 20mila posti di lavoro.
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