
Donald Trump ha evocato l’occupazione di Gaza e la deportazione dei palestinesi verso territori confinanti per trasformare la striscia in una “riviera”.
Gli Stati Uniti non avevano mai bombardato così duramente l’Afghanistan come nel 2019. All’aumentare delle bombe, aumentano anche le vittime fra la popolazione civile.
Nel 2019, gli Stati Uniti hanno sganciato 7.423 bombe in Afghanistan. È la cifra più alta dal 2006, cioè da quando il dipartimento della Difesa statunitense ha cominciato a tenere traccia dei bombardamenti ad opera delle sue truppe. Nel 2018 erano esplosi 7.362 ordigni; nel 2009, invece, 4.147.
A rivelarlo è stata l’aeronautica militare, in un report pubblicato il 27 gennaio. Nel 2016 era stato Barack Obama, l’allora presidente, a ricevere pesanti critiche da parte dell’opinione pubblica internazionale poiché, pur avendo ridotto il numero di soldati statunitensi su suolo afgano e iracheno, aveva sdoganato la politica degli interventi mirati, volti cioè a distruggere obiettivi precisi. Durante la presidenza di Donald Trump i bombardamenti si sono intensificati, perché l’amministrazione ha rimosso un provvedimento in base al quale gli obiettivi dovevano trovarsi nei pressi delle basi militari così da prevenire la morte di civili.
Le conseguenze di questa mossa sembrerebbero evidenti: in base ai dati delle Nazioni Unite, agli Stati Uniti è da attribuire la metà delle 1.149 vittime fra la popolazione civile decedute in Afghanistan per mano delle forze filogovernative nei primi nove mesi del 2019. I talebani ed i loro sostenitori sarebbero invece responsabili di 1.207 decessi fra gli abitanti.
“Gli americani pensano erroneamente di poter cambiare le dinamiche politiche semplicemente sganciando più bombe”, ha dichiarato al quotidiano britannico Guardian Laurel Miller, direttrice del programma per l’Asia dell’International crisis group, un’organizzazione non governativa che svolge attività di ricerca in materia di conflitti e avanza proposte per prevenirli o porvi fine. La guerra in Afghanistan, iniziata il 7 ottobre 2001, ha visto l’avvio delle ostilità con l’invasione del territorio controllato dai talebani da parte dei combattenti dell’Alleanza del nord, appoggiata dagli Stati Uniti. Ora l’amministrazione Trump sta cercando di raggiungere un accordo di pace con i talebani, ma il percorso si sta rivelando particolarmente accidentato. A settembre il presidente aveva interrotto i negoziati – condotti dall’inviato speciale Zalmay Khalilzad – in seguito ad un attacco kamikaze che aveva ucciso un soldato americano, per poi riaprirli a novembre.
La grande maggioranza del popolo afgano non ha conosciuto il proprio paese in pace. E la vita in un paese in guerra spesso significa una cosa sola: precarietà assoluta. Quasi il 40 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà; l’accesso ai servizi di base risulta molto complicato, le opportunità lavorative scarseggiano e la sicurezza è estremamente volatile. Si stima che 1.100 persone fuggano dalle loro case ogni giorno. Insieme al numero delle bombe che rischiano in ogni momento di stroncare le loro vite, la speranza è che diminuisca anche il numero di giorni necessari al raggiungimento di una tregua.
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