
Le comunità energetiche rinnovabili sono indispensabili per la transizione ecologica e hanno vantaggi ambientali, economici e sociali. Ecco come funzionano.
I piani di ripresa economica presentati finora puntano troppo poco sulle rinnovabili. Le emissioni di CO2 previste a livelli senza precedenti nel 2023.
Il 2023 è sulla buona strada per diventare l’anno con la più alta concentrazione di emissioni di CO2 in atmosfera della storia umana, superando il record stabilito nel 2018. A dirlo sono le proiezioni diffuse dall’Agenzia internazionale per l’energia europea (International energy agency, Iea).
Se il 2020 ha visto scendere i livelli di emissioni di CO2, con la ripresa delle attività post-Covid queste sono tornate a salire. E la cosiddetta “ripresa verde” potrebbe non essere abbastanza ambiziosa per evitare il disastro climatico: come fa notare Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Iea, “di oltre 16 miliardi di dollari spesi nei piani di ripresa, solo il 2 per cento è destinato a investimenti in energia pulita”. Infatti, la maggior parte delle risorse è legata alla spesa sanitaria e al sostegno di emergenza a imprese e a famiglie. All’effettiva ripresa economica sono destinati circa 2.300 miliardi, di cui solo 380 relativi a progetti energetici sostenibili. “Questo non è affatto sufficiente”, ha concluso Birol.
L’aumento delle emissioni di Co2 previsto per il 2023 sarà “senza precedenti” e tale “da mettere a rischio gli obiettivi indicati nell’Accordo di Parigi sul clima”: secondo l’agenzia, il problema non sta nelle economie dei paesi più ricchi – o almeno non solo – come Stati Uniti, Unione europea, Giappone e Corea del Sud, i quali stanno andando, lentamente, nella direzione giusta.
Le economie emergenti sono, invece, in forte ritardo: India, Indonesia, l’intera America Latina. Inoltre, tra i paesi industrializzati, la Cina è il più grande produttore di gas serra al mondo: sta puntando molto sulle energie rinnovabili, ma allo stesso tempo sta ancora investendo ingenti quantità di denaro pubblico nel carbone.
Per Birol e colleghi, circa il 90 per cento della crescita delle emissioni proverrà dalle economie meno industrializzate: per questo motivo è necessario “aiutarli a investire nell’energia verde”. I soldi ci sono e il dito del direttore dell’agenzia è puntato verso il Fondo monetario internazionale e, più in generale, verso le economie più ricche. Queste ultime sono invitate a garantire almeno 100 miliardi di dollari l’anno verso i paesi in via di sviluppo in modo da aiutarli a ridurre le emissioni di CO2 e far fronte agli impatti delle condizioni meteorologiche estreme.
L’Agenzia internazionale per l’energia anticipa così un tema da discutere sul tavolo dei colloqui della prossima Cop 26, prevista a Glasgow a novembre 2021. Quello della mobilitazione globale di investimenti da dirottare verso le energie rinnovabili. Per salvare il Pianeta ma anche per ragioni economiche: tagliare le emissioni nei paesi in via di sviluppo, dice l’Iea, è più economico che farlo nel mondo industrializzato.
Se la “brown economy” – ovvero l’economia dipendente dall’elevato uso di combustibili fossili – è tornata ruggente dopo la recessione causata dal coronavirus, l’economia verde è ancora in fase di sviluppo. Secondo Finance for biodiversity initiative (F4b), organizzazione impegnata nella difesa della biodiversità con sede in Svizzera, solo un decimo di tutti gli stimoli economici pubblici a livello globale iniettati per la ripresa post-pandemia avrebbe un impatto benefico sul clima e sull’ambiente, mentre circa il doppio di tale importo avrebbe un impatto dannoso.
Per F4b ciò accade perché clima e natura sono trattati come due entità separate su cui investire. Se da un lato, dei 500 miliardi di euro di stimoli economici, concessi in dieci paesi europei e analizzati dall’organizzazione, il 98 per cento della spesa relativa al clima ridurrebbe effettivamente le emissioni di CO2, dall’altro solo il 46 per cento (circa 40 miliardi di euro) della spesa relativa alla natura avrà un impatto positivo su di essa. Ciò significa che la maggior parte della spesa relativa al capitale naturale – 47 miliardi di euro – rischia in realtà di danneggiare la natura stessa e la biodiversità. Gli investimenti in soluzioni come la riforestazione, l’inverdimento urbano e il ripristino delle zone umide, che offrono vantaggi sia economici che ambientali, costituiscono appena l’1 per cento dei pacchetti di stimoli.
Se la politica continuerà a trascurare questi aspetti, gli ingenti investimenti previsti dai piani di ripresa a livello mondiale serviranno a poco. È probabile che si costruirà qualche infrastruttura, imprese e famiglie avranno di che campare per qualche anno, ma quando termineranno gli incentivi sarà troppo tardi per costruire un futuro sostenibile.
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