Elezioni in Brasile. Cos’è riuscito a fare Jair Bolsonaro da presidente

Il 2 ottobre si tengono le elezioni in Brasile. Abbiamo fatto un resoconto del drammatico primo mandato del presidente Jair Bolsonaro.

  • In Brasile del 2 ottobre si sfidano il presidente uscente Jair Bolsonaro (estrema destra) e Luiz Inacio Lula da Silva (sinistra).
  • I sondaggi danno in vantaggio Lula, che se eletto sarebbe chiamato a ridare vitalità a un paese devastato dall’era Bolsonaro.
  • L’attuale presidente in quattro anni ha fatto danni a livello ambientale, sanitario e civile, limitando molti diritti.

Il 2 ottobre la popolazione del Brasile è chiamata alle urne per l’elezione del nuovo presidente. A sfidarsi sono l’estremista di destra Jair Bolsonaro, che spera in un secondo mandato, e il candidato della sinistra Luiz Inacio Lula da Silva, già presidente del Brasile dal 2003 al 2011.

I sondaggi danno in vantaggio Lula. Quest’ultimo, se venisse effettivamente eletto, sarebbe chiamato a rimettere in piedi un paese che esce con le ossa rotte da questi ultimi quattro anni di governo Bolsonaro. Dalla malagestione della pandemia al climascetticismo, dalla guerra alle comunità indigene ai ripetuti attacchi allo stato di diritto, il Brasile di Bolsonaro ha messo all’angolo le minoranze, tormentato l’ambiente e perso credibilità internazionale. Vediamo più nel dettaglio qual è il Brasile che arriva alle elezioni del 2 ottobre.

La sfida elettorale in Brasile tra Lula e Bolsonaro
La sfida elettorale in Brasile tra Lula e Bolsonaro © Gustavo Minas/Getty Images

Bolsonaro contro la foresta amazzonica

Il 28 ottobre 2018 l’elettorato brasiliano eleggeva Jair Bolsonaro. Nostalgico della dittatura militare che tenne in scacco il paese fino al 1985, il presidente si è da subito contraddistinto per idee e politiche populiste e della destra più estrema, che hanno avuto tra le principali vittime l’ambiente.

La foresta amazzonica, che copre circa il 40 per cento del territorio brasiliano, ha vissuto uno dei suoi momenti peggiori agli inizi degli anni Duemila. Nel 2004 si è raggiunto il picco di oltre 30mila chilometri quadrati di foresta cancellata dalle attività di deforestazione, poi qualcosa è cambiato. Le scelte del governo Lula e una serie di congiunture dei mercati avevano permesso di ridurre il tasso di distruzione forestale e nel 2012 si è toccato il livello più basso di abbattimento di alberi con “soli” 4,6mila chilometri quadrati cancellati, l’84 per cento in meno del 2004. Poi il tasso di deforestazione ha ripreso a salire a causa di alcune riforme forestali discutibili del governo Rousseff, ma la situazione è andata fuori controllo proprio con l’era Bolsonaro.

Sin dall’inizio l’attuale presidente si è scagliato contro una regolamentazione ambientale per lui troppo stringente e limitante per l’attività estrattiva mineraria e per l’agricoltura. Per questo, in parallelo all’adozione di nuove misure di facciata per la protezione ambientale, ha allentato i vincoli per l’abbattimento di alberi, tagliato le risorse destinate alla lotta alla deforestazione e ridotto il personale impegnato nel  ministero dell’Ambiente e nell’agenzia di protezione ambientale statale Ibama e quella di tutela della biodiversità ICMBio. Taglialegna e compagnie minerarie hanno ringraziato e tra il 2019 e il 2021 il Brasile ha perso oltre 33.800 chilometri quadrati di foresta pluviale, un’area grande come il Belgio. Più in generale, con Bolsonaro la distruzione della porzione brasiliana della foresta pluviale più grande del mondo è aumentata dell’80 per cento rispetto al decennio precedente. In mezzo a tutto questo Ricardo Salles, ministro dell’Ambiente del governo Bolsonaro, si è dimesso nel 2021 per l’accusa di aver avuto un ruolo nel contrabbando di legname.

Contro gli indigeni

Sin dall’inizio del suo mandato, il presidente Bolsonaro ha adottato misure e politiche che hanno compromesso i diritti degli indigeni. La riduzione del budget e del personale delle agenzie di protezione ambientale, che si occupano anche di tutela dei popoli originari, rientra in quest’ottica, così come la strada spianata alle attività estrattive e agricole nella foresta. 

Un discorso a parte merita lo stravolgimento operato ai danni dell’Agenzia degli affari indigeni (Funai). A suo capo è stato messo Marcelo Xavier, che ha dato direttive alla polizia di usare il pugno duro tanto contro gli attivisti per i diritti degli indigeni, quanto contro i leader indigeni stessi impegnati in campagne e battaglie. Come ha denunciato l’organizzazione non governativa Human Rights Watch raccogliendo le testimonianze di diversi impiegati della Funai, Xavier avrebbe creato un clima tossico e di pressione interna all’agenzia per ostacolare il dissenso e assicurare che progetti impattanti sulla vita degli indigeni, come quello di una grossa centrale elettrica, ottenessero il via libera. Come ha sottolineato Sydney Possuelo, uno dei più importanti attivisti per i diritti degli indigeni del Brasile e capo della Funai negli anni Novanta, “Bolsonaro ha trasformato la Funai in un’agenzia anti-indigena”.

Tra le altre cose, Bolsonaro ha fatto approvare una legge che impedisce alle comunità indigene di reclamare e ottenere le loro terre tradizionali, così come un regolamento che consente alle persone di reclamare la loro terra anche all’interno dei territori di demarcazione indigeni. Finora il governo Bolsonaro ha riconosciuto a persone non indigene 239mila ettari di terre in aree protette indigene. Di fronte a questa situazione l’attivismo dei popoli originari si è fatto sentire in modo sempre più forte e strutturato. Tanto che Bolsonaro è stato portato davanti alla Corte penale internazionale.

Bolsonaro contro la Covid-19

Uno dei paesi più colpiti al mondo dalla pandemia Covid-19 è stato il Brasile. I decessi sono stati oltre 600mila e i contagi certificati oltre 30 milioni: nessun paese tranne Cina e Stati Uniti ha fatto registrare numeri così. E il presidente non ha fatto nulla per provare a mitigare questa situazione drammatica, anzi.

Una sepoltura di massa di morti per Covid-19 a Manaus, in Brasile
Una sepoltura di massa di morti per Covid-19 a Manaus, in Brasile © Andre Coelho/Getty Images

Bolsonaro si è sempre opposto pubblicamente alla vaccinazione contro il virus, prediligendo sin dall’inizio la via disastrosa dell’immunità di gregge. In Brasile i lockdown sono stati meno stringenti che altrove, oltre a questo la popolazione è stata istruita ad affidarsi a rimedi contro il coronavirus in realtà totalmente inefficaci. Tra questi l’idrossiclorochina, per la cui produzione sono state spese risorse pubbliche con il coinvolgimento di attori privati in quello che è diventato un vero e proprio business del farmaco. E in generale il presidente ha sempre sottolineato l’inutilità delle misure di prevenzione, compresa la mascherina, contro quella che ha definito una “debole influenza”.

Il risultato di tutto questo, oltre alla strage di cittadini, è stata la realizzazione di un rapporto di 1.200 pagine della Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) del Senato, che ha chiesto nell’ottobre 2021 l’incriminazione del presidente Bolsonaro per “omicidio di massa” a causa delle sue politiche e delle sue dichiarazioni che hanno spianato la strada alla diffusione del virus.

Contro i diritti civili

Il presidente Bolsonaro durante il suo primo mandato ha messo più volte in discussione anche lo stato di diritto e le regole democratiche. Questo è avvenuto attraverso una costante opera di intimidazione verso la Corte suprema del Brasile, chiamata a investigare sul suo conto per i numerosi casi di corruzione in cui si è trovato coinvolto. In un’occasione il presidente è addirittura arrivato a chiedere l’impeachment per il giudice Alexandre de Moraes, considerato scomodo.

Sotto l’era Bolsonaro è andata anche restringendosi, di molto, la libertà di stampa e di opposizione. Solo nella prima metà del 2021 il presidente ha rivolto insulti e molestie a giornalisti in 87 occasioni, mentre la sua attività legislativa ha riguardato anche i social network, con un decreto che voleva impedire alle piattaforme come Meta di intervenire sulla diffusione di fake news. La sua scure ha colpito poi le donne: l’aborto in Brasile è legale solo in caso di stupro, ma questo diritto viene assicurato solo in una manciata di ospedali del paese. Bolsonaro non ha mai perso occasione per schierarsi contro l’interruzione di gravidanza, compresi nei casi previsti dalla legge come quando nei mesi scorsi ha criticato una 11enne per voleva abortire dopo la violenza subita.

Il governo Bolsonaro ha anche proposto la segregazione degli alunni disabili in classi ad hoc perché considerati elementi “disturbanti” per gli altri alunni, mentre un’altra guerra è stata portata in questi quattro anni contro la comunità lgbtqia+: il presidente ha detto pubblicamente che se avesse visto due gay baciarsi in strada li avrebbe picchiati e ha teorizzato che i bambini adottati da persone omosessuali crescono al 90 per cento gay.

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