Il 41bis è un articolo dell’ordinamento penitenziario italiano, ovvero di quel corpus di normative che disciplinano l’organizzazione delle carceri e la vita dei detenuti. La norma fu introdotta per la prima volta nel 1975, e indicava che “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministro della Giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati”. Si trattava dunque di una disciplina volta a garantire l’ordine in caso di tumulti nelle carceri, e a prevenire gli stessi.
La storia del 41bis
Undici anni più tardi, la legge n. 663 del 10 ottobre 1986 – nota anche come legge Gozzini, dal nome del suo relatore Mario Gozzini, parlamentare del Partito comunista italiano – incluse il cosiddetto “sistema di sorveglianza speciale”, per colpire i detenuti ritenuti pericolosi.
È però nel 1992, dopo la strage di Capaci nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, che all’articolo fu aggiunto un altro comma. A contenerlo un decreto legge noto come Martelli-Scotti. La conversione arrivò nel mese di agosto e successivamente il testo è stato più volte modificato.
La norma che discende dal 41bis prevede il cosiddetto “carcere duro” ed era stata pensata per non consentire ai boss della criminalità organizzata di continuare ad esercitare il proprio potere dal carcere. È noto infatti che per molti anni alcuni penitenziari erano stati considerati quasi delle residenze temporanee per i capi mafiosi. E che dalle celle fosse possibile inviare messaggi, indicazioni, “pizzini”, ordini. Era insomma necessario isolare le “menti” di Cosa Nostra per spezzarne le catene di comando.
Cosa prevede il regime di “carcere duro”
Il 41bis, inizialmente, era stato inoltre introdotto con un carattere temporaneo. È stato tuttavia prorogato a più riprese nel tempo, fino ad essere stato reso definitivo nel 2002. Il regime prevede in particolare una serie di misure restrittive: tra queste l’isolamento sia nella cella che nelle parti comuni delle strutture carcerarie, limitazioni per l’ora d’aria, la sorveglianza costante affidata ad un corpo speciale della polizia penitenziaria. E ancora la limitazione dei colloqui con i familiari, il controllo della posta inviata e ricevuta, la limitazione degli effetti personali custoditi in cella.
Numerosi giudici hanno difeso l’istituto, considerato di grande importanza per la lotta al crimine organizzato. Ma c’è chi ne ha contestato une presunta incostituzionalità, con particolare riferimento all’articolo 27 della Costituzione. Quest’ultimo dispone che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
La domanda dunque è: il regime del 41bis è compatibile con il dettato della Carta? Le diverse pronunce in merito della Corte costituzionale non hanno tuttavia evidenziato rilievi particolari in questo senso. E anche la la Corte europea dei diritti umani, chiamata a esprimersi in due casi, non ritenne la disciplina, in linea di principio, in contrasto con le convenzioni internazionali. Ne ha tuttavia censurato alcuni aspetti: nella sentenza riguardante ladetenzione di Bernardo Provenzano, contestò il mancato accesso alle cure per il boss mafioso, che era malato di cancro; in quella riguardante Marcello Viola, altro ex boss mafioso, la negazione di un percorso riabilitativo
Quanti (e chi) sono i detenuti in Italia sottoposti al 41bis
Secondo i dati del ministero della Giustizia, attualmente i detenuti al regime del 41bis sono 728 (dati aggiornati ad ottobre del 2022). Di questi, la stragrande maggioranza è costituita da uomini (716): sono infatti solo 12 le donne sottoposte al “carcere duro”. Si tratta dell’1,6 per cento del totale delle persone detenute nel nostro paese (circa 56mila). La maggior parte è nel carcere de L’Aquila, ma numerosi prigionieri al 41bis si trovano a Milano (Opera), Sassari, Spoleto, Novara e Parma. Tra questi figurano nomi “eccellenti” della criminalità organizzata, come nei casi di Filippo Graviano, Antonino Mangano o Luigi Giacalone.
Il primo, in particolare, è stato una delle menti (nonché spietato killer) di Cosa Nostra. Sta scontando l’ergastolo nel carcere di Terni, senza essersi mai pentito (come il suo mentore Totò Riina) è stato accusato da una serie di pentiti di aver premuto il pulsante del telecomando che il 21 luglio del 1992 fece saltare in aria una Fiat 126 imbottita di tritolo a via D’Amelio, non appena il giudice Paolo Borsellino era sceso dall’auto per andare a trovare la mamma. Con lui moriranno i membri della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Non solo boss mafiosi
Anche Riina fu sottoposto al 41bis. E come lui numerosi altri boss mafiosi: l’ultimo in ordine di tempo è Matteo Messina Denaro, arrestato a Castelvetrano il 16 gennaio. Ma il “carcere duro” è stato imposto anche ad altri tipi di figure. È il caso, ad esempio, di Alfredo Cospito, anarco-insurrezionalista attualmente nel carcere di Opera. Fu autore della gambizzazione di Roberto Adinolfi, amministratore delegato della Ansaldo Nucleare, ed è stato successivamente condannato anche per la tentata strage del 2006 alla Scuola allievi carabinieri di Fossano (in provincia di Cuneo).
"Non c'entro nulla con la mafia, voglio che venga cancellato il 41bis per tutti perché è uno strumento che toglie le libertà fondamentali, ho visto mafiosi che sono anziani e malate". È il pensiero che Alfredo Cospito ripete dal carcere. #ANSAhttps://t.co/AJVvMbvtgd
Il 41bis, insomma, resta un pilastro della lotta alla criminalità organizzata. E benché la sua collocazione nell’ordinamento giuridico lo spinga secondo alcuni ai limiti delle garanzie costituzionali, ha consentito nel corso dei decenni di colpire numerose cosche, isolandone le “teste”.
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