L’Ecuador voleva salvare il parco di Yasuní dalle trivelle, ma deve tornare sui suoi passi

Nel 2007 il governo dell’Ecuador aveva chiesto finanziamenti per poter lasciare nel sottosuolo il petrolio del parco Yasuní. Il piano non ha funzionato.

  • Nel 2007, l’allora presidente ecuadoriano Rafael Correa aveva deciso di lasciare sottoterra il petrolio nel parco nazionale dello Yasuní.
  • Come indennizzo per i mancati introiti, aveva chiesto ai paesi esteri 3,6 miliardi di dollari.
  • Solo una minima parte dei fondi è effettivamente arrivata.
  • Oggi l’Ecuador, alle prese con enormi difficoltà economiche, si trova costretto a dare il via libera alle compagnie petrolifere.

Cosa c’entrano i flussi finanziari con la tutela dell’ecosistema? Molto di più di quanto potrebbe sembrare a uno sguardo superficiale. A dimostrarlo è la storia del parco nazionale dello Yasuní, un’area dell’Amazzonia che si arrampica ai piedi delle Ande e che ospita la più ricca biodiversità dell’intero pianeta. Un ecosistema prezioso che il governo dell’Ecuador aveva deciso di tutelare, chiedendo aiuto ai finanziatori internazionali. Il piano, però, non ha riscosso i risultati sperati. E sembra che l’unica possibilità rimasta sia quella di dare il via libera alle trivelle. A ricostruire la vicenda è un lungo approfondimento pubblicato dal New York Times.

Qual era il piano del governo dell’Ecuador

È il 2007 e Rafael Correa, all’epoca presidente dell’Ecuador, deve decidere se dare il semaforo verde alle compagnie petrolifere che vogliono aprire giacimenti nel cosiddetto blocco 43, nel parco nazionale Yasuní. Si stima che il sottosuolo custodisca più di un miliardo di barili di petrolio. Invece di rilasciare le concessioni, Correa lancia una scommessa: chiede agli altri paesi 3,6 miliardi di dollari, spalmati in tredici anni, come indennizzo per la scelta di lasciare il greggio dov’è. La cifra corrisponde alla metà dei proventi che avrebbe incassato dalla vendita.

In linea puramente teorica, è una soluzione vantaggiosa per tutti: per il clima, per la biodiversità, per i popoli indigeni. Un paese in via di sviluppo ha l’opportunità di fare la sua parte per la mitigazione del riscaldamento globale, invece di arricchirsi con il petrolio come hanno fatto tutte le economie avanzate in passato.

Pappagallo nel parco nazionale Yasuní
Un pappagallo nel parco nazionale Yasuní © Geoff Gallice/Wikimedia Commons

Le trivelle minacciano il parco nazionale Yasuní

La proposta fa molto rumore e incassa inizialmente alcune adesioni, tra cui quella della Germania. Le Nazioni Unite si prendono l’incarico di gestire il fondo. Ma molti governi stranieri non si fidano di Correa, successivamente condannato per corruzione (ora è in Belgio, dove ha chiesto asilo politico). Alla fine, il fondo racimola pochi milioni di dollari. L’Ecuador si trova costretto a chiedere in prestito 8 miliardi di dollari alla Cina, da ripagare – in parte – in petrolio.

Gli operatori della compagnia petrolifera statale si presentano nelle comunità indigene nei pressi del blocco 43. Vanno di casa in casa, per promettere denaro, alloggi e infrastrutture sanitarie. Da dodici piattaforme nella foresta, collegate tra loro da una strada sterrata, centinaia di operai lavorano a turni, 24 ore al giorno, per scavare i pozzi. È un petrolio denso e pesante e, per questo, ha un prezzo più basso e comporta maggiori emissioni di gas serra. Per giunta le operazioni di scavo sono costose, perché il 90 per cento di ciò che viene pompato dal sottosuolo è acqua tossica che va rimossa e trattata.

Gli scienziati temono un disastro ambientale

L’attuale amministrazione dell’Ecuador, nonostante ciò, sembra convinta che questa sia l’unica strada per risollevare le sorti della disastrata economia del paese. “Ora che a livello globale la tendenza è quella di abbandonare i combustibili fossili, è arrivato il momento di estrarre fino all’ultima goccia di beneficio dal nostro petrolio, in modo che possa essere al servizio dei più poveri nel rispetto dell’ambiente”, ha dichiarato il presidente Guillermo Lasso.

Sul fatto che sia possibile trivellare nella foresta amazzonica senza danneggiarla, però, gli scienziati sono scettici. Già negli anni Novanta, all’avvio della produzione petrolifera su un’area di 25 ettari, le aziende avevano assoldato esperti di biodiversità e avevano cercato di incidere il meno possibile sulla deforestazione. Le strade scavate per raggiungere i giacimenti, però, hanno portato più persone nel cuore della foresta e, di conseguenza, più disboscamento e caccia illegale. Lo zoologo Morley Read, interpellato dal New York Times, è convinto del fatto che le trivelle nel blocco 43 saranno “un altro disastro completo”.

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