Un maxi-progetto di estrazione di petrolio minaccia le coste della Guyana

Exxon Mobil annuncia un enorme progetto di estrazione di petrolio offshore, in Guyana. Per gli ecologisti esiste il rischio di una nuova Deepwater Horizon.

Un nuovo, enorme progetto di trivellazione petrolifera mette a rischio la costa della Guyana, in Sudamerica. Firmato dalla compagnia petrolifera Exxon Mobil, il progetto è stato criticato – come ha rivelato il quotidiano britannico Guardian in un suo articolo firmato a quattro mani con l’organizzazione statunitense Floodlight – per l’inadeguatezza delle misure di sicurezza e per l’impatto che le trivellazioni lascerebbero in eredità alle popolazioni locali.

La sicurezza del sito è talmente precaria che per diversi esperti il disastro è dietro l’angolo. Dal 2008, ExxonMobil ha iniziato a esplorare una vasta area che copre più di 2 milioni di ettari, con perforazioni ad una profondità media di duemila metri. Al largo della costa della Guyana, Exxon stima siano presenti 9 miliardi di barili di petrolio. Entro il 2025 il colosso petrolifero potrebbe arrivare a produrne 800mila al giorno. Superando così di 100mila unità le stime per l’intera produzione di petrolio e gas naturale del più sito di estrazione più ricco degli degli Stati Uniti: il Permiano, che si trova tra Texas e New Mexico. Insomma, grazie a questi numeri, la Guyana diventerebbe la più grande fonte di produzione di combustibili fossili di Exxon.

proteste exxon
Proteste contro Exxon Mobil a Dallas, Stati uniti © Brian Harkin/Getty Images

Guyana, “una vacca da mungere”

La principale critica ruota intorno al rapporto tra Exxon e il governo della Guyana, in cui quest’ultimo è considerato “impreparato” a fronteggiare le richieste della società petrolifera. La Guyana, infatti, è uno dei paesi con il reddito pro-capite più basso dell’intera America meridionale e per questo motivo diverse voci sostengono che Exxon stia approfittando della debolezza del governo ospitante per imporre condizioni favorevoli e “unilaterali”.

Exxon, considerata la prima azienda ad aver scoperto una significativa quantità di petrolio in Guyana, tratterrà infatti l’85 per cento dei proventi: in questo modo, da quando sono iniziate le perforazioni effettive nel 2015, il governo ha ricevuto poco più di 250 milioni di euro contro i quasi 1,7 miliardi incassati da Exxon e soci. Per Exxon si tratta di una ripartizione in linea con il mercato e con gli accordi stipulati con altre nazioni, ma il governo della Guyana – dopo l’inchiesta pubblicata dal Guardian – ha chiesto che venga rinegoziato un nuovo accordo.

Il costo di un barile di petrolio prodotto in Guyana va da 5 a 10 dollari in meno rispetto alla media globale. Per questo motivo, la Guyana è per Exxon “una vacca da mungere” il più in fretta possibile, come ha dichiarato il presidente di una società di consulenza coinvolta nell’inchiesta del Guardian: la società, infatti, ha iniziato a produrre petrolio a una velocità doppia rispetto alla media di progetti di queste dimensioni.

“La Exxon rimarrà qui per altri 20-25 anni”, ha affermato Vincent Adams, ex-capo dell’agenzia di protezione ambientale in Guyana. “Dopo aver guadagnato tutto il possibile e essersene andati, saremo noi a dover affrontare tutti i casini”.

C’è il rischio di una nuova Deepwater Horizon

Se a tutto questo si aggiunge il fatto che le condizioni di sicurezza non sono all’altezza della situazione, il quadro si fa allarmante. A essere in gioco non c’è solo la salute dei lavoratori, ma anche quella dei civili, degli oceani, della biodiversità globale.

Diversi esperti interpellati dal Guardian affermano che nella dichiarazione di impatto ambientale presentata da Exxon nel 2017 mancano le “prove della pianificazione e delle operazioni necessarie per valutare e gestire i rischi associati alle operazioni di esplorazione, produzione e trasporto offshore ad alto rischio”.

Insomma, i piani di sicurezza presentati sono superficiali e il progetto di Exxon in Guyana presenta diversi punti in comune con quello della piattaforma Deepwater horizon della British petroleum (Bp), esplosa nel 2010 nel golfo del Messico. Ancora oggi è considerato il più grande sversamento di petrolio in mare della storia: in soli cinque mesi, oltre 800 milioni di litri di greggio contaminarono fondali e coste della Louisiana e degli stati confinanti (Texas, Alabama, Mississippi).

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L’incidente della Deepwater Horizon nel 2010 riversò nel Golfo del Messico 4,9 milioni di barili di petrolio © U.S. Coast Guard/Getty Images

Due miliardi di tonnellate di gas serra in atmosfera

L’estrazione di petrolio dalle acque profonde della Guyana e la combustione del gas in eccesso (un’attività conosciuta come flaring) sprigionerebbero circa 2 miliardi di tonnellate di CO2 in atmosfera: si tratta dell’equivalente di quindici grandi centrali a carbone.

Exxon sostiene di rispettare tutte le leggi locali e di essersi sottoposta a un rigoroso controllo per ottenere le dovute autorizzazioni ambientali. Ma se questo è vero, lo è altrettanto il fatto che prima del progetto di Exxon, la Guyana non aveva una produzione significativa di combustibili fossili. Ne consegue che la legislazione è poco rodata in questo settore. Melinda Janki, avvocato ambientalista, sta facendo causa al governo per privare Exxon dei suoi contratti di locazione per motivi climatici e di rispetto dei diritti umani.

Janki ha fatto notare che l’80 per cento del territorio è coperto da ricche foreste pluviali, il che rende il piccolo stato sudamericano un pozzo di CO2 in grado di assorbire molti più gas serra di quelli prodotti e rilasciati in atmosfera. Inoltre, nel 2015 la Guyana si è impegnata a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili nell’ambito dell’Accordo di Parigi sul clima.

Obbligare la Exxon ad abbandonare il progetto è possibile

Ancora non è detta l’ultima parola. Una speranza che Exxon abbandoni il maxi-progetto c’è e risiede proprio all’interno del consiglio di amministrazione della società. A maggio 2021, il fondo attivista Engine No.1 è riuscito a far eleggere due suoi membri nel cda della Exxon Mobil, i quali hanno chiesto alla società di diversificare i suoi investimenti e abbandonare i progetti legati all’estrazione di combustibili fossili.

Inoltre, negli stessi giorni in cui l’azionariato critico entrava nel cda di Exxon, un tribunale olandese imponeva alla Shell di ridurre le proprie emissioni di gas serra del 45 per cento entro il 2030. Quindi, se il tentativo dall’interno non dovesse funzionare, si può sempre sperare in una sentenza emessa in difesa del clima.

In conclusione, il progetto che Exxon ha intenzione di portare avanti in Guyana causerebbe un danno climatico che non ci possiamo permettere, specie dopo l’allarme lanciato il 9 agosto 2021 dagli esperti dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite: l’atmosfera del pianeta Terra ha già subito un riscaldamento pari a 1,1 gradi centigradi rispetto al periodo pre-industriale. Per questo, secondo i 234 scienziati provenienti da 66 paesi che hanno firmato il rapporto dobbiamo agire adesso contro la crisi climatica o vivremo in emergenza continua.

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