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Sono passati 20 anni e le critiche avanzate al G8 di Genova dal movimento no-global sono sempre più attuali. Dobbiamo cambiare modello di sviluppo
A Genova avevano ragione i movimenti. Ma non avevano nient’altro. Sono passati vent’anni da quel luglio del 2001 e ancora oggi risuona il grido di quelle piazze. Perché, da allora, è cambiato troppo poco. E perché, da allora, la bontà di quelle rivendicazioni si è fatta coscienza (almeno un po’) più collettiva. E quella coscienza si è fatta, nostro malgrado, esperienza.
A Genova, nel 2001, non si contestava “quel” G8. Si contestava “il” G8. Perché non era considerato ammissibile che un pugno di persone prendesse decisioni che riguardavano il mondo intero. Senza consultare gli altri governi, gli altri parlamenti, gli altri popoli. Ancora oggi, i G8 (o, tutt’al più i G20) continuano a riunirsi e a indicare al mondo la linea. Ancora oggi, di fatto, il peso economico conta più delle idee. Ancora oggi il G8 non ha alcuna legittimazione democratica. È un club di potenti, nulla di più. Con un orecchio spesso teso ad ascoltare i consigli dei colossi privati.
A Genova, nel 2001, si contestava un modello di sviluppo capitalista basato sull’iper-finanziarizzazione dell’economia, sull’ultra-liberismo, sulla drammatiche diseguaglianze esistenti tra e all’interno delle nazioni, sul mito di mercati che si auto-controllano e auto-regolano. Pochi anni dopo, nel 2008, il sistema economico mondiale crollava per l’esplosione di una bolla speculativa nata proprio dall’avidità bulimica degli istituti finanziari. I ricchi nel corso del tempo hanno continuato ad arricchirsi. Anche durante la pandemia. E oggi perfino i vaccini anti-Covid sono concentrati nel Nord del mondo.
A Genova, nel 2001, si stigmatizzava il fatto che da decenni si fosse scelto di abbattere le frontiere per le merci e di rafforzarle per i migranti. Si gridava contro una concorrenza al ribasso basata sullo smantellamento delle conquiste dei lavoratori. Si chiedeva di imporre regole di equità all’Organizzazione mondiale del commercio, di redistribuire la ricchezza, di cancellare almeno in parte il debito dei paesi poveri.
A Genova, nel 2001, a tutto ciò si rispose con la repressione. Con la sospensione de facto della democrazia e dei diritti. Alla scuola Diaz come alla caserma di Bolzaneto. A vent’anni di distanza, è ora che quei diritti vengano finalmente restituiti. Costruendo un mondo più giusto e sostenibile, proprio ora che l’interventismo pubblico post-pandemia sta segnando la fine del modello liberista. Accettando i limiti del Pianeta. Tutelando ambiente e clima. Distribuendo le risorse in modo meno inaccettabile. Superando il principio della massimizzazione ad ogni costo dei profitti.
A Genova, nel 2001, avevano ragione i movimenti. È ora di accettarlo e di cambiare.
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