Indonesia, dove le miniere abbandonate diventano trappole

Sono più di 3mila le miniere abbandonate in Indonesia, senza bonifiche né misure di sicurezza. Di rado si sente parlare delle gravissime conseguenze.

Sull’impatto ambientale delle attività estrattive sono stati spesi fiumi di inchiostro. Molto più di rado, però, si sente parlare delle pesanti conseguenze che le miniere abbandonate, magari da mesi o da anni, comportano per il territorio e la comunità. Un tema, questo, che in Indonesia conoscono bene. Anche con risvolti drammatici.

Più di tremila miniere abbandonate in Indonesia

Nell’arco di appena sei anni, tra il 2014 e il 2020, in Indonesia 168 persone hanno perso la vita per episodi tanto illogici quanto evitabili. Sono caduti all’interno di cave non segnalate, oppure si sono immersi in quelle che sembravano piscine naturali, inconsapevoli dei rischi. Molti erano bambini. Come Jamil, tredicenne disabile annegato nel 2015. Aveva ventun anni invece Bayu Setiawan, caduto in acqua mentre pescava insieme agli amici: il suo è uno dei 24 incidenti che hanno costellato il 2020. Nella sola città di Samarinda sono morte 39 persone dal 2014 in poi; altre 57 nella provincia di Bangka-Belitung, centro nevralgico per l’industria dello stagno, materiale con cui si saldano i dispositivi elettronici.

È quanto emerge da un report scritto dal Mining advocacy network (Jatam) e raccontato dalla testata ambientalista Mongabay, che segue la vicenda ormai da qualche anno. In tredici province indonesiane sono disseminate 3.092 miniere abbandonate. Più della metà si trova nella provincia del Kalimantan Orientale, noto centro carbonifero. Oltre ai rischi in termini di sicurezza ci sono quelli ambientali, perché le acque acide e tossiche finiscono per contaminare le risaie circostanti.

Gli alti e bassi del comparto minerario indonesiano

Nei primi anni Duemila, quando il carbone appariva come un business “facile” e redditizio, il governo ha concesso licenze a pioggia a un dedalo di piccole e piccolissime società. Tant’è che ormai, spiega l’agenzia Reuters, spesso è difficile risalire al reale proprietario di una cava. Secondo quanto riportato da Asean briefing, il comparto petrolifero e carbonifero contribuisce al 60 per cento dell’export del paese asiatico. Consistenti anche le esportazioni di stagno raffinato, rame, oro, nichel e bauxite (la roccia da cui si ricava l’alluminio).

Col tempo, però, le cose sono cambiate. Risale al 2015 il primo tracollo del prezzo del carbone che ha portato al fallimento di ben 125 società nel solo Kalimantan orientale. Le quotazioni si sono poi risollevate, fino al nuovo picco del biennio 2018-2019. Nel 2020 la pandemia ha di nuovo affossato sia i prezzi sia la domanda da parte dei principali acquirenti, India e Cina. L’Agenzia internazionale dell’energia prevede una flessione della produzione pari al 14 per cento, più marcata rispetto al 6,5 per cento prospettato a livello globale.

operaio cava indonesia
Firdiansyah, un ex operaio di una cava, rimasto disoccupato © Ed Wray/Getty Images

Perché le cave vengono lasciate incustodite

E cosa fanno molte aziende quando finiscono in bancarotta, oppure decidono che un giacimento è diventato antieconomico o è già stato sfruttato a sufficienza? Se ne vanno, lasciando la miniera a cielo aperto senza nemmeno recintarla o apporre la segnaletica. Basta qualche giornata di piogge monsoniche ed eccola trasformata in un pericolosissimo stagno.

Per legge, le compagnie minerarie dovrebbero riempire gli scavi e piantare nuova vegetazione. Tutto questo entro trenta giorni. Un obbligo che – denunciano le organizzazioni ambientaliste – viene sistematicamente disatteso, alla pari del divieto di scavare a meno di 500 metri dalle aree agricole e residenziali.

Una legislazione mineraria opaca e debole

Lo scorso anno un’altra ong, Auriga Nusantara, ha pubblicato uno studio dal titolo eloquente: Untouchables, intoccabili. Il riferimento è a otto colossi minerari che hanno omesso di bonificare un’area complessiva di 873 chilometri quadrati, l’equivalente della città di New York, approfittando abilmente di varie scappatoie legislative.

In teoria, prima di ottenere la licenza, le società dovrebbero depositare allo stato una caparra che copre le spese di chiusura e la successiva bonifica. Questo, però, non è un prerequisito per ricevere il via libera al progetto e al budget. Il risultato è che il 72 per cento delle compagnie opera indisturbata senza aver versato tali fondi – il cui importo, in ogni caso, non viene reso pubblico. In sintesi, il report punta il dito contro la scarsissima trasparenza dell’intero iter di controlli, ispezioni e sanzioni.

Ci sono forti dubbi sul fatto che la riforma della legislazione mineraria, approvata nel 2020 tra le proteste della popolazione, possa sbloccare la situazione. Perché, pur di attrarre investimenti, liberalizza ancora di più il settore. Innanzitutto cancella il limite territoriale per ogni singola concessione, precedentemente fisato in 15mila ettari; una scelta che può aprire la strada alla deforestazione, temono gli ambientalisti. Inoltre introduce il rinnovo automatico delle concessioni in scadenza fino a un massimo di vent’anni. Ad approfittarne potrebbero essere proprio quelle compagnie che non hanno assolto al loro dovere di bonificare le miniere abbandonate.

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