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La CO2 viene iniettata nel terreno e mineralizzata, con un processo molto costoso ed energivoro. Nel mondo sono attivi 20 impianti di carbon capture.
Aspirare la CO2 dall’aria per mineralizzarla dopo averla iniettata in profondità nel terreno. Si chiama Orca, un nome derivante dalla parola islandese “orka”, che significa “energia”. Ed è il più grande impianto al mondo capace di catturate l’anidride carbonica dall’aria.
Si trova nella zona di Strumsvik, in un altopiano nel sudovest dell’Islanda, e si sviluppa su quattro unità, ciascuna composta da due scatole metalliche simili a dei container. Costruito dalla svizzera Climeworks e dall’islandese Carbfix, quando lavorerà a pieno regime sarà in grado di assorbire in un anno 4.000 tonnellate di anidride carbonica dall’aria, trasformandola in roccia; secondo le stime dell’Environmental protection agency statunitense, l’agenzia di protezione dell’ambiente, ciò equivale alle emissioni di circa 870 automobili.
Per raccogliere l’anidride carbonica, l’impianto utilizza dei ventilatori per aspirare l’aria in un collettore, che ha un materiale filtrante all’interno; una volta che il materiale filtrante è stato riempito di CO2, il collettore viene chiuso e la temperatura viene aumentata per rilasciare l’anidride carbonica dal materiale, dopodiché il gas altamente concentrato può essere raccolto; la CO2 viene quindi miscelata con l’acqua prima di essere iniettata a una profondità di 1.000 metri nella vicina roccia basaltica, dove viene mineralizzata.
Fin qui, le luci. Ma le ombre sono molte. Il progetto ha un costo elevatissimo – Bloomberg parla di un investimento compreso tra i 10 e i 15 milioni di dollari – per trasformare 4.000 tonnellate di anidride carbonica, a fronte del miliardo di tonnellate che andrebbero estratte dall’atmosfera per raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni. In pratica, ha ammesso Christoph Gebald, uno degli ingegneri svizzeri che ha lavorato al progetto, “si tratta di costruire un mercato che ancora non esiste. L’impianto che abbiamo realizzato è un progetto per crescere ulteriormente”.
Al di là dell’investimento iniziale, emerge anche il tema dei costi del processo stesso: al momento siamo tra i 600 e gli 800 dollari per tonnellata di CO2, mentre si dovrebbe scendere a 100/150 dollari per far sì che il sistema risulti competitivo. Senza dimenticare che l’Islanda ha una particolare geologia sotterranea e ampie riserve di energia geotermica, che ben si sposano con una simile tecnologia. In sostanza il problema principale, come ha spiegato il direttore della Carbon mitigation initiative alla Princeton University, Stephen Pacala, resta quello di rendere l’intero progetto “economico e replicabile”.
Orca è solo l’ultimo, in ordine di tempo, dei molteplici progetti per la carbon capture, lo stoccaggio della CO2, messi in piedi negli ultimi anni grazie anche al sostegno dell’Agenzia internazionale dell’energia, che sostiene la cattura di gas serra nel percorso verso la transizione energetica. Una prospettiva sposata con decisione anche dal Regno Unito, che nel suo piano verde ha dedicato a questa voce un miliardo sui dodici messi a disposizione. Nel mondo sono attivi oltre 20 impianti che aspirano 40 milioni di tonnellate di anidride carbonica l’anno: si tratta dello 0,1 per cento delle emissioni annue globali.
Solo negli ultimi quattro anni sono stati annunciati progetti relativi a 30 nuovi impianti. È il caso del Canada, dove si sta cercando di produrre su scala globale una benzina che non emette nuova CO2 perché aspira quella già presente in atmosfera. Oppure del progetto dell’Università dell’Illinois, a Chicago, di una cella solare che cattura l’anidride carbonica e la trasforma in carburante, riproducendo ciò che avviene in natura con la fotosintesi. E ancora di un impianto svizzero che sequestra dall’atmosfera circa 900 tonnellate di biossido di carbonio l’anno, rivendendole a una serra per migliorare la crescita dei vegetali coltivati. In definitiva, numeri alla mano questa tecnologia sembra ancora poco matura per un utilizzo su larga scala; e anche qualora ciò avvenisse, il modello di produzione e di business fin qui adottato su scala globale andrebbe comunque ripensato in chiave più sostenibile.
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