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Così l’itticoltura può affrancare le donne africane dalle violenze sessuali
Favori sessuali in cambio di pesce: a questo devono ricorrere le donne africane per garantirsi il pescato da vendere. L’itticoltura può essere la soluzione.
L’itticoltura come processo per garantire uno sviluppo alimentare, assicurare un reddito familiare, preservare l’ambiente e ridurre il numero di violenze sessuali e la diffusione dell’Hiv. Anche se a una prima lettura può sembrare incomprensibile come l’allevamento dei pesci sia in grado di compiere questa rivoluzione e intervenire in modo radicale su questa pluralità di aspetti, è proprio questo che sta accadendo nel bacino del lago Vittoria, la più grande riserva di acqua dolce al mondo.
L’importanza della pesca in Africa
Per comprendere ciò che sta avvenendo nelle aree rivierasche del lago dell’Africa centrale, occorre prima analizzare la situazione economica e sociale nei villaggi bagnati dalle acque del lago. In Kenya, Uganda e Tanzania, i tre Paesi africani che si affacciano sul bacino lacustre, la pesca permette la sussistenza di oltre 4 milioni di persone essendo la principale, se non unica, forma di reddito per gran parte degli abitanti dei villaggi.
L’incremento demografico nella regione ha registrato però un’accelerazione impressionante negli ultimi anni, con un tasso di crescita è del 3,5 per cento l’anno. Tale aumento esponenziale della popolazione ha avuto due conseguenze immediate. La prima, come prevedibile, è stata una diminuzione della fauna ittica. La seconda, invece, una diffusione sempre più capillare e incontrollata del fenomeno che, in lingua luo, è chiamato jaboya e che tradotto letteralmente significa ”sesso in cambio di pesce”.
Perché itticoltura e superamento degli abusi sono collegati
Dal momento che le donne sono deputate alla vendita e non alla cattura del pesce, per potersi garantire la propria parte di pescato da esporre sui banchi dei mercati, sempre più di frequente, vista anche la diminuzione della materia prima, ricorrono alla prostituzione. Il numero esatto di quante donne offrano favori sessuali ai pescatori in cambio del pesce non è possibile ottenerlo. Ciò che è però certo, stando ai dati forniti dall’ong World neighbors, è che un quarto della popolazione rivierasca è sieropositiva. E che il numero delle infezioni lungo le coste del lago supera del 5 per cento le medie nazionali di tutti e tre i Paesi. E il principale motivo è proprio la diffusione ormai sistemica del jaboya.
È all’interno di questo contesto, nel quale si registrano abusi nei confronti delle donne, problemi demografici e danni ambientali, che la diffusione dell’itticoltura interviene come un argine alla deriva sociale, sanitaria ed economica della regione. A rivelarlo è un’inchiesta pubblicata dalla testata Ozy che ha raccolto testimonianze di donne che attraverso l’itticoltura hanno cambiato le proprie vite dal momento che l’allevamento dei pesci dà loro la possibilità di guadagnare senza dipendere dal pescato degli uomini. E gli effetti della diffusione degli allevamenti di specie ittiche in meno di un lustro hanno dato ottimi risultati.
Nel distretto di North Nyakach, in Kenya, dove vivono 42mila persone, i tassi di infezione da Hiv sono diminuiti del 20 per cento e il reddito delle famiglie è aumentato del 32 per cento da quando World neighbors ha lanciato un programma che incoraggia l’itticoltura. In Tanzania i dati della Fao mostrano che l’allevamento di pesci d’acqua dolce è raddoppiato in un anno e in Uganda l’organizzazione Katende harambe rural urban training center sta investendo sull’itticoltura praticata in casse di legno e galloni d’acqua così da permettere anche alle fasce più povere della popolazione di avviare la propria attività di allevamento di pesci. Inoltre si è registrata una radicale diminuzione della pesca intensiva e a beneficiarne sono state in primis le acque del lago Vittoria, preziose e vitali per un’intera regione.
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