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Il grido d’allarme sulla temperatura sempre più tropicale del Mediterraneo arriva da una ricerca del biologo dell’università di Vienna Paolo Albano.
La temperatura media globale dei mari, nel 2020, ha fatto registrare sui termometri dei ricercatori il valore più caldo di sempre. Ma non è tutto. I cinque anni più caldi mai osservati in acqua sono tutti successivi al 2015. Lo rivela il primo studio sul riscaldamento globale degli oceani, con dati relativi all’anno 2020, elaborato da un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori italiani dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e dell’Enea. Secondo il rapporto, in particolare, il Mediterraneo si avvicina a presentare condizioni proprie di un mare tropicale. Come contrastare tale fenomeno? Una possibile risposta è nel passato: la paleontologia può rivelarci cosa è accaduto e cosa sta per succedere per via del riscaldamento globale. A suggerirlo è il lavoro, pubblicato su Proceedings B, di Paolo Albano, biologo e ricercatore presso l’università di Vienna.
“I dati – spiega l’Enea – evidenziano che lo strato tra la superficie e i 2.000 metri di profondità ha assorbito 20 zettajoule (migliaia di miliardi di miliardi) di calore rispetto all’anno precedente, equivalenti a quello prodotto da 630 miliardi di asciugacapelli in funzione giorno e notte per un anno intero”. Tale assorbimento da parte dei mari rappresenta l’indicatore più evidente del fatto che il Pianeta si stia riscaldando. Il 2020 e il 2016 sono, d’altra parte, i due anni più caldi mai registrati considerando, però, che il 2016 è stato l’anno di El Nino, il fenomeno climatico periodico che determina un forte riscaldamento delle acque oceaniche. Al di là di ciò, tuttavia, il 90 per cento del riscaldamento globale è assorbito dai mari e dagli oceani, tanto che si potrebbe parlare, anziché di riscaldamento globale, di “riscaldamento delle acque”.
Sulla base delle sue ricerche, il biologo Paolo Albano ritiene il Mediterraneo non sia da meno, anzi: il “”Mare Nostrum” è il bacino che evidenzia il tasso di riscaldamento maggiore negli ultimi anni, confermando quanto già riscontrato nei rapporti del servizio europeo Copernicus. Proseguendo un processo iniziato una trentina di anni fa, ma con un incremento più elevato rispetto alle altre aree oceaniche.
Il report di Albano si intitola “Native biodiversity collapse in the eastern Mediterranean” (in italiano, “La biodiversità autoctona crolla nel Mediterraneo orientale”), e si concentra sulle coste di Israele, dove negli ultimi 30 anni si è perso quasi il 90 per cento delle antiche specie native di molluschi. “La temperatura in quelle zone è aumentata di ben 3 gradi negli ultimi 40 anni”.
Ma gravi perdite nella biodiversità si sono già verificate. Ad esempio nel caso dei murici (molluschi che gli antichi romani usavano per colorare di porpora i loro tessuti): specie molto comuni e visibili in immersione a qualche metro di profondità. Nel Mediterraneo ne esistono tre specie ma sulle coste di Israele, dove Albano ha realizzato la sua ricerca, ce n’era solamente una. Un dato del tutto anomalo.
Il “bacino levantino”, ovvero l’estremo Mediterraneo orientale – dove si sono concentrate le ricerche di Albano -, ha sempre rappresentato delle zone “quasi tropicali” del Mediterraneo. Questo implica che la maggior parte delle specie che storicamente sono state presenti in quell’area, ha vissuto al limite della sua tolleranza alla temperatura. In soccorso della ricerca di Paolo Albano è arrivata la storia geologica del mare: cinque milioni di anni fa il Mediterraneo era isolato e quasi disseccato, dopodiché si è riaperto il collegamento con l’oceano Atlantico.
L’attuale fauna di quest’ultimo, però, è “temperato-fredda”. Gli animali che vivono nel Mediterraneo orientale oggi sono già al limite rispetto alla loro capacità di resistere alle alte temperature: basta un ulteriore aumento per danneggiarli. Se i cambiamenti climatici presentano una media globale in aumento, in alcune aree il fenomeno è particolarmente evidente. È il caso proprio della porzione orientale del Mediterraneo, nella quale la temperatura risulta aumentata più che altrove.
Stando alla ricerca del biologo italiano, l’Italia presenta una situazione leggermente più favorevole rispetto alle coste israeliane, perché collocandosi nel Mediterraneo centrale ha intorno a sé dei mari che ancora non sono ancora arrivati ai limiti di tolleranza. Ma c’è un modo per iniziare a invertire la rotta del riscaldamento? Il motivo ideato da Albano è semplice e ingegnoso: i dati scientifici risalgono solo agli anni Sessanta, ed è impossibile sapere se oggi manchi qualche specie per colpa del riscaldamento climatico o fosse scomparsa già dall’apertura del canale di Suez, inaugurato nel 1869. I molluschi però sono dotati di una conchiglia, che si conserva integra a lungo sui fondali: per decenni, secoli e anche qualche millennio. Usando i metodi tipici della paleontologia si può studiare la conservazione della biodiversità in mare. E trarne spunti utili per agire nel presente.
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