Popoli indigeni

Il Metropolitan museum of art assume la sua prima curatrice indigena in 150 anni

Scopriamo chi è Patricia Marroquin Norby, nativa americana e nuova curatrice di uno dei più grandi e noti musei di New York.

Dopo l’omicidio di George Floyd, afroamericano brutalmente assassinato da un agente di polizia, la questione razziale ha dimostrato per l’ennesima volta di essere una ferita ancora aperta nel cuore degli Stati Uniti. Le proteste che hanno seguito il tragico episodio hanno portato anche all’abbattimento di alcune statue ritenute simboli della “supremazia bianca”, tra cui monumenti dedicati a Cristoforo Colombo e altri colonizzatori legati al genocidio dei popoli nativi americani, come Juan de Oñate e Junípero Serra.

In questo clima di tensione, Kamala Harris è diventata la prima donna nera candidata alla vicepresidenza del paese, scelta dal democratico Joe Biden in vista delle elezioni del 3 novembre. Adesso anche la direzione di uno dei musei più famosi del mondo, il Metropolitan museum of art di New York (Met), ha deciso di lanciare un messaggio forte e chiaro assumendo a tempo pieno, per la prima volta nei suoi 150 anni di storia, una curatrice nativa americana.

Chi è Patricia Marroquin Norby, nuova curatrice del Metropolitan museum of art

Si chiama Patricia Marroquin Norby, appartiene al popolo dei purépecha – originario della regione nordoccidentale dello stato messicano di Michoacán – e prima di approdare al Met era vicedirettrice, nella stessa città, del Museo nazionale degli indiani d’America. Il suo nuovo ruolo è quello di curatrice associata dell’arte nativa americana, orgogliosamente assunto a partire dal 14 settembre.

“Sono grata di avere l’opportunità di tornare alle mie origini artistiche”, ha dichiarato Norby. “L’arte dei nativi, quella del passato come quella contemporanea, racconta gli sconvolgimenti sul piano ambientale, religioso ed economico che questi popoli hanno saputo affrontare con coraggio – e tuttora si trovano ad affrontare – grazie all’equilibrio fra bellezza, tradizione, innovazione”.

Ha concluso dicendo: “Ci troviamo in un momento di significativa evoluzione per il museo. Sono entusiasta di poter fare parte di questo cambiamento cruciale per la presentazione dell’espressione artistica indigena”. Un grosso incoraggiamento è arrivato anche dal direttore del Met, Max Hollein.

Sono onorata di unirmi ai nativi americani e agli artisti indigeni nel far sentire le nostre molteplici voci al Met. Questo è un momento di significativa evoluzione per il museo.

Patricia Marroquin Norby

Obiettivo? Promuovere l’arte dei nativi americani e la cultura di popoli discriminati

Fino a poco tempo fa, le opere dei nativi erano esposte nelle gallerie dedicate all’Africa, all’Oceania e alle Americhe. Nel 2018, un’esposizione allestita per la prima volta nell’ala statunitense del museo ha suscitato l’indignazione dell’Association on American Indian affairs, impegnata nella tutela dei diritti degli amerindi, che ha pubblicamente accusato gli organizzatori di aver esibito “oggetti cerimoniali e corredi funerari” facenti parte del patrimonio culturale delle tribù senza nemmeno averne consultato i rappresentanti. Un’accusa smentita dalla controparte.

nativi americani Flagstaff
I nativi americani chiedono una società più inclusiva © Scott Olson/Getty Images

L’obiettivo di Norby sarà proprio quello d’instaurare un dialogo con le comunità artistiche indigene per unire collezioni e programmare mostre che sappiano rendere loro giustizia, riuscendo a cogliere le diverse sfaccettature espressive di questo mondo variegato e avviando collaborazioni strutturate con gli artisti coinvolti.

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La nuova curatrice del Metropolitan, che può vantare una brillante carriera universitaria e un dottorato di ricerca in Studi americani con specializzazione in Arte, storia e cultura visuale dei nativi, ha studiato molto questi popoli, cui appartiene. A breve uscirà il suo libro Acqua, ossa e bombe che prende in esame la produzione artistica sudoccidentale del Ventesimo secolo e, parallelamente, i conflitti ambientali fra le comunità di amerindi, bianchi e ispanici nel nord della valle del rio Grande, fiume che costituisce il confine naturale tra Messico e Stati Uniti.

La dimostrazione che gli indigeni – come i neri, come chiunque altro – hanno tutte le carte in regola per essere persone di successo, nonostante le discriminazioni e gli ostacoli che incontrano sul loro cammino professionale (e non). E, soprattutto, meritano di raccontarsi. Che l’aria negli Stati Uniti stia finalmente cambiando, almeno un pochino?

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