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Nanoplastiche nei mari: quelle particelle invisibili alla ricerca scientifica
Fino ad ora gli studi scientifici si sono limitati a studiare le microplastiche ingerite dai pesci. Ma ancora troppo poco sappiamo delle nanoplastiche, che potrebbero essere persino più pericolose.
Dopo l’inchiesta di Legambiente sulla truffa dei sacchetti ecologici e la campagna #UnSaccoGiusto, è lecito chiedersi dove finiscono i sacchetti. Sì perché, se i sacchetti non sono davvero compostabili rappresentano un serio rischio per il mondo marino. A supporto dello studio pubblicato dalla fondazione Ellen McArthur in cui si legge che il quantitativo di plastica nei mari tra 35 anni rischia di essere superiore a quello di pesce, ecco arrivare un altro studio, questa volta direttamente dall’EFSA (European Food Safety Authority), agenzia europea preoccupata di come non esista una legislazione in materia di plastiche ingerite dalle specie marine e di cui l’uomo si ciba.
Che i pesci ingeriscano microparticelle di plastica ormai è risaputo. Esistono diversi studi capaci di descrivere numericamente – sebbene in maniera non del tutto esaustiva – il problema. E l’EFSA è partita proprio dalla letteratura esistente per porre al mondo scientifico un’ulteriore domanda: cosa si sa invece delle nanoparticelle? Che effetto hanno queste sull’uomo? Così l’EFSA ha incaricato un gruppo di scienziati di rispondere a queste domande, tra i quali c’è il dottor Peter Hollman, senior researcher presso l’istituto di ricerca RIKILT e professore associato nel dipartimento alimentazione e salute dell’Università di Wageningen, Paesi Bassi.
Nanoparticelle invisibili
“Quando esaminiamo le microplastiche” spiega il dottore “stiamo parlando di particelle la cui grandezza va da 0,1 micrometri a 5 millimetri. Le nanoplastiche vanno dagli 0,001 micrometri a 0,1 micrometri (insomma da 1 a 100 nanometri, nda). Data la loro grandezza sono molto difficili da individuare”. Così sulle nanoparticelle non ci sono dati a sufficienza per stabilire in quale quantità si sedimentino nei pesci e di conseguenza nell’essere umano. Di conseguenza non sappiamo nulla sul loro grado di tossicità, cioè cosa succede dopo la digestione di questi materiali. Ma lo possiamo immaginare studiano le microplastiche.
Plastiche nei crostacei, miele, birra
Un uso sempre più massiccio nel mondo delle materie plastiche ha creato vaste aree di rifiuti di plastica galleggianti negli oceani, le cosiddette “zuppe di plastica”. Sono state misurate aree grandi come la Francia. Questi detriti si stanno gradualmente frammentando in particelle sempre più piccole che alla fine diventano microplastiche e nanoplastiche. Il pesce mostra alte concentrazioni di microplastiche (soprattutto i grandi pesci, di solito predatori) ma dal momento che queste si concentrano per lo più nello stomaco e nell’intestino – che di solito vengono rimossi per essere cucinati – i consumatori riducono il rischio di esposizione. La stessa cosa non si può dire dei crostacei e dei molluschi, come ostriche e cozze, delle quali si mangia l’apparato digerente. Inoltre tracce di microplastiche sono state rinvenute anche nel miele, nella birra e nel sale da tavola.
I residui degli imballaggi
Tra le microplastiche più pericolose troviamo i bifenili policlorurati (PCB) e gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) che, a elevate concentrazioni, sono altamente inquinanti. Ci possono essere anche residui di composti utilizzati negli imballaggi come il bisfenolo A (BPA). “È necessario stimare il consumo medio di queste sostanze” riprende Hollman “perché alcuni studi suggeriscono che dopo aver consumato microplastiche, queste sostanze possono trasferirsi ai tessuti. Inoltre sappiamo che le nanoplastiche possono entrare nelle cellule umane con seri danni per la salute ma anche qui necessitiamo di dati più precisi”.
L’EFSA ha stimato che una porzione di cozze da 225g potrebbe contenere 7 microgrammi di microplastiche. Secondo Hollman, se tale quantità contenesse il più alto valore di concentrazione di BCP o BPA, contribuirebbe ad aumentare il rischio di esposizione di un essere umano di uno 0,01% per il BPA e del 2% nel caso del PCB. Secondo Hollman tali valori non sono preoccupanti, ma vanno tenuti in considerazione. Per questo, attraverso la sua pubblicazione, l’EFSA chiede uno standard per monitorare queste sostanze: non esistendo una legislazione in materia di micro e nano plastiche presenti nel cibo è necessario dotarsene di una al più presto.
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