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I passeri, compagni abituali della nostra vita in città e in campagna, si stanno estinguendo. La colpa è delle attività umane che minacciano i loro habitat.
Vivo in una zona molto verde nell’immediato hinterland metropolitano. La mia casa si affaccia su un boschetto attraversato da un torrente. I piccoli animali selvatici – conigli e persino una volpe – sono presenze abituali. Così come lo sono gli uccelli di ogni tipo e grandezza. Dai maestosi aironi cenerini, ospiti consueti in queste zone, ai corvi e ai merli; dalle tortore ai picchi dal mantello variopinto, passando per i passeracei che conosciamo tutti. Presenze abituali e gradite – forse un po’ meno in primavera ed estate quando il loro canto alle 5:00 del mattino può risultare fastidioso – che segnano il passare delle stagioni e il cambio delle temperature.
Forse per questa ragione mi sono stupita quando ho letto una recente ricerca inglese, firmata dall’ornitologa anglosassone Fiona Burns, che denuncia il calo della presenza dei passeri nel territorio europeo. Una diminuzione che lascia sconcertati e desta preoccupazione soprattutto in coloro che, come me, sono abituati alla presenza degli uccellini di ogni dimensione e specie e li considerano compagni necessari e importanti nel grande quadro ambientale.
I dati non sono confortanti. Ci sono 247 milioni di passeri domestici in meno in Europa rispetto al 1980, secondo lo studio inglese: uno degli uccelli un tempo più comuni e diffusi sul continente si sta avviando lentamente all’estinzione. Ma il nostro abituale compagno alato non è l’unico volatile europeo ad andare incontro a questo triste destino. Negli ultimi quattro decenni si è assistito alla scomparsa di 1/6 degli uccelli domestici, pari a una perdita di quasi 600 milioni di esemplari.
Fra le specie più colpite da questa estinzione ci sono la cutrettola gialla (97 milioni di esemplari in meno), lo storno (75 milioni in meno) e l’allodola (68 milioni di uccelli in meno). Lo studio ha analizzato i dati relativi a 378 delle 445 specie di uccelli nativi dell’Unione europea e del Regno Unito, osservando che il declino della popolazione alata è passato dal 17 al 19 per cento nel periodo compreso fra il 1980 e il 2017.
Quella del passero domestico (Passer domesticus) è la specie che ha subito le perdite maggiori, arrivando a dimenticare quasi metà della sua popolazione, mentre il suo parente più vicino, il passero mattugio, ha subito la diminuzione di più di 30 milioni di esemplari. Entrambe le specie si stanno estinguendo a causa dei cambiamenti nelle pratiche di coltivazione, ma il passero domestico risulta sparito anche dai cieli di molte città per ragioni che gli scienziati non sono riusciti ancora a comprendere, ma che probabilmente includono la scarsezza di cibo, l’inquinamento e malattie come la malaria aviaria.
La Lipu (Lega italiana protezione uccelli) ha stimato che in vent’anni le campagne italiane hanno perso tra gli 8 e i 14 milioni di volatili appartenenti a 41 specie di uccelli. Tra le cause primarie di questa diminuzione vi è senza dubbio l’intensificazione delle pratiche agricole (compreso l’allevamento) che ha portato a forti modificazioni del paesaggio, come la scomparsa di siepi, filari, prati polifiti e zone steppose, habitat abituali di molte specie di volatili. A ciò si sommano i danni provocati dall’utilizzo di pesticidi (che hanno un’azione immediata sulla mortalità degli uccelli, oltre a diminuire la disponibilità di fonti alimentari) e alla costante meccanizzazione agricola.
“I cambiamenti climatici hanno ulteriormente aggravato la situazione, sia in modo indiretto a causa degli effetti negativi sugli habitat degli uccelli, sia in quello diretto soprattutto per le specie migratorie, come dimostrano ormai numerosissime ricerche scientifiche svolte in questo ambito. L’innalzamento della temperatura sta, infatti, sconvolgendo i delicati equilibri naturali che regolano il fenomeno migratorio, come le date di arrivo e partenza delle specie volatili dall’Europa verso l’Africa. Anche la desertificazione e la scomparsa di zone umide mettono in difficoltà molti uccelli che non trovano più i siti di sosta abituali durante il loro viaggio”, mi spiega Federica Luoni della Lipu. Un brutto trend che sembra continuare senza che le politiche ambientali attuali cerchino una soluzione valida e, soprattutto, efficace.
È sicuramente ancora possibile invertire queste tendenze, ma solo se si cambia radicalmente il modello attuale, basato proprio sulla massimizzazione delle rese a discapito degli equilibri naturali. Ripristinare gli elementi naturali del paesaggio agricolo, conservare i prati storici, le praterie alpine e le steppe, diminuire il carico di fertilizzanti e di pesticidi di sintesi, e sostenere sempre e comunque l’agricoltura biologica: ecco i dettami imprescindibili per porre riparo alla situazione.
“Queste sono anche le azioni che la stessa Commissione europea definisce come chiave nell’ambito del Green deal europeo nelle strategie Biodiversità 2030 e Farm to fork. Ed è per questo che è fondamentale che nel futuro piano strategico nazionale della Pac il nostro paese attui una vera e propria strategia di conversione verso un modello agroecologico con sostegni a tutti quegli interventi che possano ripristinare l’equilibro tra agricoltura e biodiversità”, aggiunge Federica Luoni.
Purtroppo, però, le politiche ambientali italiane non sembrano andare in quella direzione, pur prevedendo un elenco di interventi utili e decisamente necessari nel breve periodo. L’intero impianto è ancora legato al passato e il budget è orientato a sostenere, ancora una volta, l’intensificazione dell’agricoltura e soprattutto del comparto zootecnico. Allevamenti intensivi, quindi, deforestazione, habitat agricoli e metropolitani cambiati e impoveriti: questi i “colpevoli” identificati. E, ancora una volta, a rimetterci sono gli animali, vittime incolpevoli della nequizia umana.
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