Quale futuro per i curdi dopo il cessate il fuoco della Turchia nel Rojava?

Per oltre una settimana la Turchia ha attaccato il Rojava, a maggioranza curda: la situazione secondo l’ong Un ponte per e l’Ufficio informazione per il Kurdistan. Il cessate il fuoco sta per terminare.

Sta per scadere il cessate il fuoco siglato cinque giorni fa tra Stati Uniti e Turchia nel nordest della Siria, anche noto come Rojava, giunto dopo otto giorni di attacchi senza sosta via terra e via aerea dell’esercito turco contro i combattenti curdi, iniziati il 9 ottobre. Al 15 ottobre erano almeno 50 le vittime civili, con 157 persone gravemente ferite e almeno 200 mila sfollati, secondo l’ultimo rapporto pubblicato insieme alle Nazioni Unite dall’ong italiana Un ponte per. Ma la situazione potrebbe tornare drammatica.

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I caduti curdi in Siria nell’offensiva turca durante l’offensiva di ottobre 2019 © John Moore/Getty Images

Prima della tregua, il numero di vittime, feriti e sfollati cresceva di giorno in giorno: “Abbiamo ricevuto foto di intere città disabitate, e parliamo di 70mila bambini sradicati dalle proprie case” spiega Angelica Romano, co-presidente dell’unica ong italiana presente nel Rojava fino a pochi giorni fa, quando in seguito al bombardamento di due strutture sanitarie costruite insieme alla Mezzaluna Rossa, Un ponte per ha deciso di evacuare il proprio personale non siriano per motivi di sicurezza: da quel giorno, non è più possibile avere numeri certi su vittime, feriti e sfollati.

Vittime e sfollati, numeri in costante crescita

Non solo: l’impianto idrico di Allouk, una cittadina della regione, è stato distrutto, con gravi conseguenze per circa 800mila abitanti della regione di Al-Hasakeh, e almeno tre ospedali, due scuole, due chiese e una panetteria sono stati colpiti direttamente dai bombardamenti. Anche i portavoce della società civile curda, netta maggioranza della Siria settentrionale, sono preoccupati: secondo il portavoce delle Forze democratiche siriane, Mustafa Bali c’è il sospetto che l’esercito turco abbia utilizzato armi convenzionali, cioè chimiche, mentre per Yilmaz Orkan, portavoce della onlus Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia “i numeri citati nel rapporto vanno almeno raddoppiati per avvicinarsi alla realtà”.

Il campo di Shaila, nel Kurdistan iracheno, che ospita rifugiati curdi fuggi dal nord della Siria durante il cessate il fuoco © Byron Smith/Getty Images
Il campo di Shaila, nel Kurdistan iracheno, che ospita rifugiati curdi fuggi dal nord della Siria durante il cessate il fuoco © Byron Smith/Getty Images

Una no fly zone per proteggere i civili

Angelica Romano nei giorni scorsi ha presentato al governo italiano, a nome di Un ponte per, proprio insieme a Orkan, tre richieste ben precise per fare pressione sulla Turchia affinché si fermi l’avanzata militare: varare un embargo sulle armi con effetto immediato e non solo sulle commesse future, ma anche sulle forniture in corso; ritirare il contingente militare e i missili impegnati in Turchia nell’operazione Active Fence, lanciata dalla Nato proprio per proteggere la popolazione turca da eventuali lanci missilistici dalla Siria; avanzare alle Nazioni Unite la richiesta di una no fly zone in tutto il Rojava sul modello di quanto adottato a suo tempo sul Kurdistan iracheno.

No, dunque, allo schieramento di un contingente della Nato sul confine turco-siriano, proprio mentre gli Stati Uniti hanno deciso di schierare 200 uomini sul confine: “Siamo certi che una riposta diplomatica sia molto più efficace – ci spiega Angelica Romano – e l‘Italia può fare moltissimo: non sarebbe la prima volta che il nostro Paese giocherebbe un fondamentale nella zona riuscendo a bloccare i bombardamenti, qualche anno fa lo fece tra Israele e Libano, proprio perché si tratta di partner commerciali e politici molto importanti: con i curdi perché c’è un legame importante con l’Italia, con la Turchia perché è molto vicina geograficamente ed è all’interno della Nato esattamente come noi”.

Ma non c’è soltanto l’aspetto delle diplomazie nazionali: Un ponte per si appella anche ai comuni e a tutti gli enti locali in generale, chiedendo atti di gemellaggio e solidarietà con le città curde e di votare documenti di condanna della guerra. E poi c’è il mondo dello sport: in tanti hanno chiesto alla Uefa, la federazione calcistica europea (finora senza risposta) di spostare la finale della prossima Champions League di calcio prevista, al momento, a Istanbul.

Ma hanno fatto scalpore nei giorni scorsi le manifestazioni di sostegno all’esercito da parte di molti atleti turchi: per molti osservatori si è trattato di una sorta di “atto dovuto” per evitare ritorsioni da parte del governo di Ankara, ma Orkan dà una spiegazione diversa della società turca: “in Turchia c’è una militarizzazione molto forte e tutti i turchi, grandi patrioti, oggi si sentono militari. È un appoggio militare volontario, non di facciata. E non è questione di sport, è una questione individuale: a nessuno dovrebbe piacere la guerra”.

Una regione tormentata

La guerra da queste parti la conoscono fin troppo bene: le regioni a maggioranza curda hanno sofferto negli ultimi anni le conseguenze di tutti i conflitti civili del Medio Oriente, da quello iracheno a quello siriano passando per l’avanzata dello Stato islamico: in queste zone sono confluiti negli anni decine di migliaia di profughi, qui sono detenuti centinaia di miliziani dell’Isis spesso catturati proprio dalle milizie curde, preziose alleate dell’esercito americano. “Fino a meno di un mese fa gli americani dicevano che i curdi erano loro amici, alleati, erano gli eroi contro lo stato islamico – lamenta Orkan – e invece oggi non muovono un dito e anzi ritirano i propri militari. Questo vuole dire regalare il nordest della Siria alla Turchia”.

Leggi anche: Perché la Turchia ha più paura dei curdi che dello Stato Islamico

E c’è il pericolo fondato che lo Stato Islamico (Isis) riesca riorganizzarsi approfittando di questo caos: già qualche centinaio di jihadisti è riuscito a tornare in libertà: “il presidente americano Trump dice che l’omologo turco Erdogan gli ha promesso che gestirà lui la questione dell’Isis, però quello di Erdogan è già un califfato… e tantissimi jihadisti che hanno fatto attentati in Europa sono passati proprio dalla Turchia, o basti ricordare l’attentato di Ankara del 2015 contro persone che manifestano per la pace e la democrazia”.

L’esperimento democratico del Rojava

Ma il rimpianto più grosso, sia per Romano che per Orkan, è che l’iniziativa militare della Turchia, beffardamente denominata Fonte di pace, spazzerà via quello che la comunità internazionale aveva riconosciuto come un grande esperimento di creazione di democrazia dal basso: “Ci sono intere generazioni di bambini nel Rojava che hanno saltato completamente tutti i cicli scolastici, molti sono nei campi profughi in Iraq – spiega la co-presidente di Un ponte per – Ma finalmente era tornata la corrente elettrica per le strade, si era attivato un servizio pubblico di trasporto, si cominciava a immaginare una normalizzazione  con delle premesse diverse”.

Il nordest della Siria, noto appunto come il Rojava, è una amministrazione autonoma che si considera una delle quattro regioni del Kurdistan e nel 2014 si è dotata di un Contratto sociale che propugna laicismo, democrazia e uguaglianza di genere come principi fondamentali: “Per redigerlo c’è stato un grande studio delle costituzioni, e tra l’altro si è preso molto spunto dalla Costituzione italiana. C’è stata una grossa spinta di democratizzazione dal basso”, assicura Angelica Romano.

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Un bombardamento nella città di confine di Kobane, nota per la sua strenua resistenza all’avanzata dell’Isis © Getty

Yilmaz Orkan è stato per l’ultima volta in Rojava nel maggio scorso, e nel ricordo si fa commosso: “Era tutto bello, c’era una vita collettiva quotidiana in crescita, maggiore sicurezza, l’economia si stava sviluppando, le donne partecipavano a tutti i settori della vita, anche economica e militare. Era bellissimo. Anche chi era emigrato stava tornando nel nord della Siria per partecipare alla vita e per lavorare, perché noi siamo siriani: non vogliamo un altro stato, non vogliamo altri confini, vogliamo unità”. Oggi invece in centinaia di migliaia sono già stati costretti a scappare dalla propria terra, in cerca confini diversi come quello iracheno.

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