I piani di riduzione delle emissioni delle aziende italiane sono tra i più ambiziosi d’Europa

Un nuovo report esamina i piani di riduzione delle emissioni delle imprese. L’Italia è promossa, alla pari della Germania, ma c’è ancora molto da fare.

  • L’organizzazione no profit Cdp ha studiato i piani di riduzione delle emissioni presentati dalle aziende dei paesi industrializzati.
  • Gli obiettivi dell’Italia sono i più ambiziosi del G7 e d’Europa, a pari merito con la Germania.
  • Resta tuttavia molto lontano l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali.

“Raggiungeremo la carbon neutrality entro il 2050”. “Ci impegniamo a ridurre la carbon footprint dei nostri prodotti”. Quante volte abbiamo letto affermazioni del genere nei siti dei brand? E quante volte ci siamo chiesti se questo sia abbastanza, per arginare una crisi climatica ormai conclamata? A dare una risposta è l’autorevole organizzazione no profit indipendente Cdp (nota in precedenza come Carbon disclosure project), autrice di uno studio che passa in rassegna i piani di riduzione delle emissioni presentati dalle aziende dei paesi industrializzati. E promuove le italiane.

Cosa dicono i piani di riduzione delle emissioni delle aziende

Cdp ha passato in rassegna i piani di riduzione delle emissioni presentati da circa 4mila aziende in tutto il mondo, confrontandoli con le proiezioni sul riscaldamento globale elaborate dagli scienziati. Tra i paesi del G7, il Canada è clamorosamente fuori strada: le tabelle di marcia fornite da 297 imprese sono compatibili con un riscaldamento globale pari a 3,1 gradi centigradi. E solo il 4 per cento delle emissioni è inquadrato all’interno di obiettivi in linea con la scienza (science-based targets).

Terzo sciopero globale per il clima
Montréal, Canada, 27 settembre 2019 © Natalia Koper/LifeGate

Al lato opposto della classifica troviamo l’Italia, a pari merito con la Germania: in entrambi i casi, gli obiettivi di riduzione delle emissioni portano verso un riscaldamento globale di 2,2 gradi. Le aziende tedesche fanno meglio di quelle nostrane per percentuale di emissioni coperte da science-based targets: 76 per cento contro 58 per cento. Più in generale, l’Europa sembra aver preso la sfida del clima molto più sul serio rispetto ad Asia e America, anche se persiste una notevole differenza tra paesi virtuosi come Italia e Germania e altri più in ritardo, come Ungheria, Grecia, Austria, Belgio e Lussemburgo (tutti proiettati verso i 3 gradi).

Gli obiettivi di Parigi sono ancora molto lontani

Anche i piani di riduzione delle emissioni più ambiziosi, anche quelli più solidi in termini di metodo, restano comunque lontani anni luce dagli obiettivi fissati dalla comunità internazionale. L’Accordo di Parigi, siglato nel 2015, prevede infatti di limitare la crescita della temperatura media globale “ben al di sotto dei 2 gradi centigradi”, facendo tutto il possibile per “per tentare di non superare gli 1,5 gradi”. Una soglia, quello degli 1,5 gradi, che è stata ribadita dal Patto di Glasgow siglato alla Cop26.

Potrà sembrare una questione di decimali, ma non lo è. Perché, se confrontato con uno scenario a 1,5 gradi, un aumento di 2 gradi moltiplica di dieci volte le probabilità di estati artiche senza ghiaccio e di 2,6 volte il numero di persone che rischiano di subire ondate di caldo estreme. Eppure, la media delle economie del G7 è compatibile con un aumento di 2,7 gradi, che scende a 2,4 se si escludono dal conteggio le emissioni della filiera produttiva (Scope 3). Per il futuro del pianeta, sarebbe una catastrofe.

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