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A vent’anni dalla prima edizione, come si fa a rendere il meno impattante possibile sull’ambiente un evento che coinvolge ogni anno migliaia di delegati ed espositori e decine di migliaia di visitatori? Slow Food ci ha pensato da tempo, con il Systemic Event Design (SEeD), un progetto sviluppato dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e
A vent’anni dalla prima edizione, come si fa a rendere il meno impattante possibile sull’ambiente un evento che coinvolge ogni anno migliaia di delegati ed espositori e decine di migliaia di visitatori? Slow Food ci ha pensato da tempo, con il Systemic Event Design (SEeD), un progetto sviluppato dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e applicato fin dal 2006 con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale dell’evento.
Dal 2014 Slow Food si è spinta oltre, prendendo in considerazione anche l’innovazione sociale, l’accessibilità all’esperienza culturale, l’impatto economico e culturale dell’evento sul territorio. Ne abbiamo parlato con Franco Fassio, ricercatore e docente di systemic food design a Pollenzo.
Com’è nato il progetto SEeD?
Era qualcosa che già ci veniva “naturale”, anche per essere coerenti con la nostra filosofia del “buono, pulito e giusto”. Ma poi, dieci anni fa, ci siamo accorti che nei giorni del Salone del Gusto la produzione di rifiuti di Torino aumentava di quasi il 3 per cento (d’altro canto con 172mila visitatori nell’edizione 2006, l’impatto avrebbe potuto essere ancora più alto, visto che gli abitanti di Torino sono 870mila, ndr).
Abbiamo deciso dunque che dovevamo ridurre drasticamente la produzione di rifiuti. La prima azione intrapresa è stata quella di eliminare la moquette (che tra l’altro ci faceva buttar via ogni anno 120mila euro). Questa semplice scelta ha generato innovazione, perché abbiamo dovuto lavorare su materiali fonoassorbenti per rimpiazzare la funzione di riduzione del rumore che aveva la moquette; e anche perché abbiamo costretto le aziende che la producevano a porsi la domanda di come rigenerare la moquette, senza doverla ogni volta buttar via a evento finito.
Un’altra decisione è stata quella di eliminare i sacchetti di plastica, e usare solo quelli biodegradabili e compostabili; già nel 2008, prima dell’obbligo per legge. Nello stesso anno ci siamo posti il problema dei pallet (bancali) che utilizzavamo, e che non avevano una regolamentazione di legge, potendo trasportare agenti chimici e subito dopo prodotti alimentari, o essendo fatti con legname di foreste irradiate dalla fuga radioattiva di Chernobyl. Da allora usiamo solo pallet in legno certificato Fsc e Pefc prodotti da un’azienda emiliana, la Palm.
E ad evento finito cosa fate di questi bancali?
Abbiamo fatto dei contratti con alcune grandi aziende di Torino e del Piemonte, che li ritirano a Salone concluso, e li usano per la loro attività. Questo tra l’altro fa risparmiare Slow Food sui costi di smontaggio alla fine dell’evento. Ma anche chi li ritira risparmia, perché li abbiamo comprati noi. E infine risparmia la città di Torino, che non li deve smaltire come rifiuti. Ecco, questo è un esempio di relazione sistemica utile per tutti.
Quindi, siete riusciti a ridurre i rifiuti di un bel po’…
Sì, già nel 2012 abbiamo calcolato di aver ridotto l’impatto ambientale del 65 per cento rispetto al 2006. Inoltre credo che siamo uno dei rari casi di grande evento che riesce a tracciare tutti i rifiuti, da che cos’erano a cosa diventeranno grazie al riciclo, producendo così nuova ricchezza da ciò che sarebbe stato destinato a produrre un costo per essere smaltito.
La raccolta differenziata è passata dal 16 per cento del 2006 al 59 per cento. E ciò che conta è che ha un livello di purezza del 90 per cento, quindi i materiali si possono riciclare bene. Noi ad esempio abbiamo sempre diviso il vetro colorato da quello trasparente.
Gli espositori come hanno recepito queste scelte?
L’inizio è stato molto difficoltoso. Noi abbiamo cambiato la modalità espositiva di tutti gli espositori. La leva che però li ha convinti è stata constatare che “smaterializzando” il classico stand preallestito, l’estetica ne guadagnava, facendo risaltare il prodotto. A quel punto sono arrivate proprio da loro diverse proposte interessanti.
Che studi ci sono dietro tutte queste azioni?
Abbiamo iniziato da soli, ma adesso ci sono tre università che collaborano: noi di Scienze Gastronomiche, il Politecnico di Torino (che si occupa del design e dell’ergonomia) e la Scuola di Management ed Economia dell’Università di Torino (che calcola l’impatto economico e culturale del Salone sul territorio).
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