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Il dossier Stop pesticidi svela come i prodotti trasformati finiscano sulle nostre tavole pieni di residui chimici. Per questo, il ruolo dell’agricoltura biologica è chiave. L’editoriale della presidente di Legambiente.
Nonostante soluzioni alternative e più sostenibili siano da tempo offerte da buone pratiche agronomiche e suggerite da un’evoluzione normativa che fissa tra i propri obiettivi l’uso sostenibile dei pesticidi, l’uso dei prodotti fitosanitari rimane significativo. La frutta è il comparto dove si registrano le percentuali più elevate di multiresiduo, cioè la presenza di più e diversi residui di prodotti fitosanitari, e dove si concentrano le principali irregolarità.
Tra i casi eclatanti ci sono uva, fragole, pere e frutta esotica (soprattutto banane) e in particolare i prodotti di provenienza extra Ue, come il cumino, le bacche o il tè verde. Quest’ultimo risulta contaminato da un mix di ben 21 differenti sostanze chimiche, di cui 6 sopra i limiti stabiliti dalla legge, mentre le bacche contenevano fino a 20 molecole chimiche differenti. Sono questi alcuni dei dati che emergono dall’ultimo dossier di Legambiente Stop pesticidi, in cui sono stati raccolti ed elaborati i risultati delle analisi sulla presenza di residui di fitofarmaci nei prodotti ortofrutticoli e trasformati, realizzati dalle agenzie per la protezione ambientale, istituti zooprofilattici sperimentali e Asl.
Sebbene i prodotti fuorilegge (cioè con almeno un residuo chimico che supera i limiti di legge) siano solo una piccola percentuale (1,2 per cento nel 2015, 0,7 per cento nel 2014), tra verdura, frutta e prodotti trasformati, la contaminazione da uno o più residui di pesticidi riguarda un terzo dei prodotti analizzati (36,4 per cento). L’incremento dell’uso di fungicidi evidenziato nel dossier ci porta a riflettere sull’incidenza crescente del riscaldamento globale nella gestione delle malattie delle piante. Affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici è quindi fondamentale per sviluppare misure adattative che possano permettere di rispondere ai cambiamenti previsti.
È strategico valutare l’efficacia dei metodi fisici, chimici e biologici attualmente disponibili e, al contempo, è fondamentale proseguire nella ricerca di strumenti e strategie (incluso il miglioramento genetico) per far fronte ai cambiamenti climatici. In questo senso, dovranno essere sviluppate misure alternative, come i diversi metodi culturali e il controllo biologico a garanzia della sicurezza e la salute delle colture, così come sistemi di monitoraggio per la salute dell’ambiente.
In questo scenario, per Legambiente diventa ancor più rilevante colmare uno storico vuoto normativo: in Italia manca ancora una regolamentazione specifica rispetto al tema del multiresiduo dentro i limiti stabili dalla legge, su uno stesso campione alimentare. Ad oggi ancora non si dà il giusto peso ai possibili effetti sinergici tra le sostanze chimiche presenti nello stesso campione rispetto alla salute delle persone e dell’ambiente. Sul tema della poliesposizione, infatti, c’è ancora molta strada da fare, così come sui meccanismi di accumulo nel suolo, sulle dinamiche di trasferimento e il destino a lungo termine nell’ambiente delle sostanze chimiche.
Andrebbero, poi, valutati con maggiore attenzione gli effetti in termini di perdita di biodiversità, riduzione della fertilità del terreno e accelerazione del fenomeno di erosione dei suoli. Tanto più per quelle sostanze su cui non esiste ancora un parere unanime del mondo scientifico, come il glifosato per il quale dovrebbe essere applicato il principio di precauzione e il divieto di utilizzo.
Legambiente è convinta che l’agricoltura possa rappresentare il più importante alleato per affrontare le attuali sfide ambientali e per lo sviluppo di una nuova economia. La crescita esponenziale dell’agricoltura biologica e delle pratiche agronomiche sostenibili sta infatti dando un contributo importante alla riduzione dei fitofarmaci e al ripristino della biodiversità e alla salute dei suolo, grazie anche alla ricerca e all’innovazione. I criteri dell’agricoltura biologica permettono infatti di sostituire l’intervento chimico con l’utilizzo dei meccanismi naturali contribuendo alla difesa delle piante e al ripristino della fertilità dei suoli e della biodiversità. La superficie agricola biologica in Italia, infatti, tra il 2014 e il 2015 ha registrato un aumento del 7,5 per cento.
Infine, è fondamentale rilanciare le buone pratiche agricole attente alla complessità dei processi naturali e soprattutto capaci di innovare e sperimentare nuove tecnologie: consociazioni, rotazioni, sovesci, semina su sodo, minime lavorazioni del terreno e diserbo meccanico riducono il rischio di malattie delle piante e inducono negli anni effetti benefici sulla struttura del suolo, sulla sua capacità di ritenzione idrica e sulla salute delle piante. In questo senso, governo e regioni dovrebbero investire maggiormente in ricerca e formazione per sostenere con maggior forza questo processo di cambiamento che è stato avviato.
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