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L’ume, l’albicocca giapponese dell’umeboshi, è il frutto di 400 anni di agricoltura sostenibile
Da secoli, il frutto dell’ume viene coltivato a Minabe e Tanabe in armonia con i boschi cedui e gli insetti impollinatori: un metodo riconosciuto dalla Fao.
Il Giappone è famoso in tutto il mondo per la fioritura primaverile dei ciliegi, o sakura. Altrettanto spettacolare, però, è la vista delle colline colorate da un altro fiore rosa, quello dell’ume – l’albicocca giapponese spesso erroneamente chiamata prugna – che sboccia in tardo inverno, a febbraio e inizio marzo.
A differenza del sakura, questa non è solo una pianta ornamentale. Il frutto dell’ume viene usato per produrre un liquore chiamato umeshu e consumato come sciroppo o marmellata, e nella sua versione secca e sotto sale, l’umeboshi, è un ingrediente tipico della cucina giapponese da usare sia come condimento che come contorno.
Appassionati di cucina di tutto il mondo apprezzano sempre di più il sapore aspro e le intense note di umami (il quinto elemento del gusto) dell’ume: nel 2022, il quotidiano San Francisco chronicle ha riportato una crescita significativa nei cibi e nelle bevande a base di questo frutto in California, ad esempio. A contribuire alla popolarità dell’albicocca giapponese sono anche i suoi benefici per la salute, dall’abbondanza di potassio e la presenza di polifenoli che rafforzano le difese immunitarie, all’essere una cura naturale per i postumi della sbornia.
Due piccole città giapponesi, Minabe e Tanabe nella prefettura occidentale di Wakayama, sono responsabili di oltre la metà della produzione di ume a livello nazionale. Su 80mila abitanti, il 70 per cento lavora in questo settore.
Alla base di questa economia locale ci sono pratiche agricole centenarie in cui diversi elementi dell’ecosistema interagiscono tra di loro, garantendo sia la produzione agricola che la tutela della biodiversità e delle risorse idriche. “La coesistenza di questi diversi elementi, ovvero i frutteti di ume, i boschi cedui e gli insetti impollinatori, è stata riconosciuta ufficialmente dalla Fao (l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura) nel 2015”, spiega Akira Ueno, coltivatore di ume e leader del progetto Machi campus di Minabe, un’iniziativa locale per educare i giovani sulle caratteristiche sociali e ambientali di questa zona.
In questo senso, il sistema dell’ume di Minabe-Tanabe (Minabe-Tanabe ume system in inglese) ha qualcosa in comune con comunità agricole in 24 paesi in tutto il mondo, dai viticoltori di Soave in Veneto, ai pastori Maasai in Kenya, agli agricoltori andini in Ecuador e in Perù: è uno di 74 sistemi di patrimonio agricolo di importanza mondiale – Globally important agricultural heritage systems (Giahs) in inglese –, una denominazione assegnata dalla Fao a “comunità in evoluzione caratterizzate da una relazione dinamica con il territorio, il paesaggio culturale o agricolo, o l’ambiente sociale o biofisico”.
L’ume ha radici profonde
Le radici dell’ume, però, vanno al di là di questo riconoscimento. L’albero di prunus mume venne portato dalla Cina al Giappone tra 1.500 e 2mila anni fa e per molto tempo i suoi frutti vennero usati esclusivamente per scopi medicinali e solo dalle classi alte. L’adozione dell’ume, e in particolare dell’umeboshi, nella dieta quotidiana giapponese è avvenuta quattro secoli fa, durante il periodo Edo, un’epoca storica che durò dal 1603 al 1868.
Durante il periodo Edo, il riso veniva raccolto come imposta dai signori feudali, ma le pendici ripide e il suolo fangoso delle colline di Minabe e Tanabe, sfavorevoli alla ritenzione dell’acqua, rendevano questa terra inadatta alla coltivazione di riso. Nel 1620, Naotsugu Ando, il signore feudale che governava la zona, incoraggiò i contadini a piantare l’ume, che cresceva spontaneamente; un’intuizione che non solo permise alla comunità di pagare le tasse in ume invece che in riso, ma gettò i semi della popolarità di questo frutto in tutto Giappone.
Facendo qualche passo avanti, fino ad arrivare agli anni Sessanta del secolo scorso, una varietà di ume chiamata Nanko (identificata e registrata per la prima volta nell’area di Minabe e Tanabe) siglò il successo di questo progetto agricolo. In Giappone, Nanko è la varietà più consumata in assoluto e costituisce infatti l’83 per cento della produzione totale di ume di Minabe e Tanabe – il cui valore complessivo ammontava a quasi 90 milioni di euro nel 2012. Infatti, Nanko è la varietà migliore per fare l’umeboshi perché ha la pelle sottile e la polpa morbida e abbondante.
Tutt’ora, alcune festività annuali si tengono a Minabe e Tanabe per celebrare la raccolta di Nanko e le altre varietà coltivate qui, per un totale di 23 tipi diversi. Ad esempio, il 6 giugno è la Giornata dell’ume e in questa occasione il frutto viene offerto in alcuni santuari Shinto locali – tra cui il più antico di Minabe, Suga jinja, vecchio di oltre mille anni – lo stesso giorno in cui, nel 1545, l’imperatore giapponese intraprese il medesimo rituale in un santuario di Kyoto. Questa ricorrenza è così importante che una legge locale a Minabe stabilisce che nella Giornata dell’ume i residenti devono mangiare l’onigiri, ovvero la palla di riso, insaporito con l’umeboshi.
I frutti della Terra
Insieme alle usanze locali legate all’ume, le tecniche agricole che si sono sviluppate a Minabe e Tanabe negli ultimi 400 anni sono state mantenute e perfezionate nel tempo. Al loro centro c’è l’interdipendenza tra diverse parti del sistema dell’ume.
Iniziando dall’alto, le creste sopra i frutteti di ume sono ricoperte da boschi cedui in cui “viene praticato il taglio selettivo degli alberi, che significa che i rami vecchi vengono potati per consentire a quelli nuovi di crescere”, spiega Ueno. In queste foreste infatti si trova la quercia ubame che viene usata per produrre un tipo di carbone di alta qualità, il Kishu binchotan, che è una specialità di questa regione.
Nel tagliare solo i rami, le radici degli alberi vengono lasciate intatte e questo aiuta a prevenire le frane e consente all’acqua di essere rilasciata lentamente nel suolo, alimentando le acque sotterranee. “L’acqua scorre poi verso valle, attraverso i frutteti fino a raggiungere il fiume e le valli sottostanti”, dice Ueno, alimentando diverse attività agricole.
Tra queste la più importante è sicuramente la coltivazione di ume. La caratteristica che contraddistingue questi frutteti è che l’erba sotto gli alberi non viene tagliata. Nella stagione della fioritura, infatti, le colline di Minabe e Tanabe non sono solo colorate di rosa ma anche di un verde acceso. Oltre a mantenere un buon livello di umidità del suolo, questo metodo fa sì che gli insetti nocivi non attacchino gli alberi perché tendono a stare nell’erba, spiega Ueno.
Ancora più cruciale è l’azione dell’erba, insieme a quella dei fiori di ume, nell’attrarre le api, la cui salvaguardia è una questione di orgoglio locale e una vera e propria necessità. L’autoimpollinazione non avviene nelle varietà di ume come la Nanko; per questo diverse varietà vengono coltivate una di fianco all’altra e l’impollinazione incrociata avviene grazie ai preziosi insetti. Benché la produzione di ume a Minabe e Tanabe non sia biologica, Ueno sottolinea che “non spruzziamo pesticidi durante la fioritura perché questo è il periodo in cui le api sono al picco della loro attività”.
Quando si arriva poi alla stagione della raccolta di ume, che si tiene da maggio a luglio, il metodo migliore è aspettare che i frutti cadano una volta maturi, quando sono al massimo della loro dolcezza. Insieme a reti posizionate sotto gli alberi, l’erba agisce da cuscino per i frutti di ume che cascano a terra.
Questo sistema ecologico e agricolo integrato legato alla coltivazione dell’albicocca preferita dei giapponesi non costituisce solo un approccio equilibrato all’agricoltura ma protegge anche la biodiversità, tra cui le specie animali. Gli sparvieri, gli astori e altri uccelli vivono nei frutteti di ume e nei boschi cedui, e specie rare ed endemiche di anfibi come la salamandra di Mitsjama e il tritone dal ventre di fuoco si trovano nei bacini per l’irrigazione e nel fondovalle.
I semi del futuro
“Questo sistema era già in essere ben prima della nomina a Giahs, ma grazie a questo riconoscimento gli agricoltori possono vederlo chiaramente per quello che è”, dice Ueno. Ad esempio, i produttori di carbone Kishu binchotan e quelli di ume sono più consapevoli della loro dipendenza reciproca.
“(Inoltre), la denominazione Giahs non denota solo che stiamo applicando pratiche agricole antiche, ma la nostra capacità di adattarle ai bisogni delle generazioni future, e rende questo sistema più facile da spiegare ai giovani”. In quanto leader del progetto Machi campus, Ueno è infatti impegnato a portare gli studenti universitari nei campi di ume per conoscere le loro caratteristiche, con lo scopo a lungo termine di incoraggiarli a trasmettere questo sapere a quelli più giovani di loro.
“Ci sono agricoltori che dicono ai loro figli di scegliere una professione diversa, ma io faccio l’opposto. Voglio coinvolgere le prossime generazioni”, dice l’agricoltore.
La visione di Ueno è essenziale per la sopravvivenza del settore dell’ume a Minabe e Tanabe. Nonostante il riconoscimento della Fao, la produzione di questo frutto in tutto il Giappone sta soffrendo a causa dello spopolamento delle campagne e dell’invecchiamento della popolazione. Un altro problema è “la riduzione della domanda a causa dell’occidentalizzazione della dieta giapponese”, spiega Ueno.
Una soluzione potrebbe essere quella di puntare di più sul mercato estero, aggiunge Ueno. L’alta qualità di uno dei frutti più amati del Giappone e l’attenzione con cui viene coltivato potrebbero essere leve importanti per incoraggiare l’espansione del consumo di ume nel mondo. Con l’obiettivo non solo di tutelare l’economia delle comunità legate alla sua produzione ma di premiare quei prodotti agricoli che sostengono le culture locali e il benessere del territorio.
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