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Sant’Anna accusata da Acqua Eva di diffamazione e turbativa del commercio per aver diffuso notizie su un presunto legame con i supermercati Lidl.
Il mondo dell’acqua vive un momento di difficoltà: a scuotere la filiera non ci sono solo le questioni che agricoltori e produttori sono costretti ad affrontare a causa della siccità. In questi giorni, ad alimentare la tensione nel settore è lo scontro che vede coinvolti due grandi marchi della minerale. “Diffamazione” e “turbativa dell’industria e del commercio” sono le accuse penali a cui dovranno rispondere in tribunale i vertici del colosso dell’acqua Sant’Anna di Vinadio, rinviati a giudizio per aver surrettiziamente pubblicato un articolo in cui si asseriva che Acqua Eva fosse controllata dalla catena di supermercati tedesca Lidl, notizia che pare essere costata al marchio di Paesana (Piemonte) un danno notevole in termini di credibilità e valore finanziario, danno che verrà quantificato in tribunale.
La società Acqua Eva di Paesana ha denunciato Acqua Sant’Anna, ottenendone il rinvio a giudizio dei vertici. La battaglia che i due colossi dovranno affrontare in tribunale a partire dal 22 settembre, data in cui è fissato l’inizio del dibattimento, è legata ad un articolo pubblicato il 18 aprile 2018. Nel pezzo veniva “falsamente asserito e artatamente indicato” che Fonti Alta Valle Po, titolare del marchio Acqua Eva, risulterebbe di proprietà della catena di supermercati Lidl, e che quindi “opera sul mercato, nella catena della grande distribuzione, in un regime di concorrenza sleale dovuta a conflitti di interesse”. Sorprendentemente, stando a quanto emerso dall’inchiesta giudiziaria durata tre anni, e riportata con dovizia di approfondimenti in un’inchiesta del quotidiano La Stampa, dietro all’articolo ci sarebbero il presidente e amministratore delegato di Fonti di Vinadio Alberto Bertone, il suo direttore commerciale Luca Cheri, e Davide Moscato, ex dipendente di Mia Beverage, società controllata da Acqua Sant’Anna, e di cui Bertone è amministratore unico, tutti, appunto, rinviati a giudizio.
La Procura di Cuneo li ritiene infatti responsabili dell’inchiesta, firmata “Redazione”, con un punto interrogativo nel titolo: “Acqua Eva è un brand di proprietà di Lidl?”. E nel sottotitolo: “È la domanda che si stanno ponendo i buyer della Gdo da alcune settimane, ed in questo articolo cercheremo di fare chiarezza”. Ma invece di chiarire, l’articolo confonde, mescolando informazioni vere e di pubblico dominio su azionariato e Consiglio di amministrazione della società di Paesana, e notizie false e infondate sulla loro riconducibilità ai “centri di potere” Lidl, generando così disdette di contratti milionari, dal momento che a nessun supermercato della grande distribuzione fa piacere tenere a scaffare un prodotto che arricchisce la concorrenza. Il sospetto degli inquirenti inoltre è che l’obiettivo della finta inchiesta non fosse solo quello di danneggiare Acqua Eva sotto il profilo del fatturato, ma anche la volontà di indebolire la concorrente per poi poterla acquistare ad un prezzo vantaggioso (infatti, pervennero ben due proposte scritte di acquisto da parte di Sant’Anna).
“Ho provato sorpresa e sconcerto”, dichiara in un’intervista a La Stampa Gualtiero Rivoira, amministratore delegato di Fonti Alta Valle Po. “Ovvio che la grande distribuzione prendesse le distanze. A nessun supermercato piace l’idea di mettere sugli scaffali un’acqua di proprietà di una catena concorrente, come lo stesso articolo sollecitava”. Sant’Anna, dal canto suo, non ha replicato nel merito, sostenendo – sempre in una dichiarazione a La Stampa – che “le cause si combattono in tribunale”.
L’ottima reputazione di cui godeva il gruppo di Fonti Alta Valle Po aveva anche attirato l’attenzione di un importante imprenditore di profilo nazionale, intenzionato a investire nel beverage e a portare Acqua Eva in tutto il mondo, un investimento ingente per portare il marchio negli Stati Uniti, in Giappone e in altri Paesi, operazione sfumata – secondo Acqua Eva – sempre a causa dell’articolo diffamatorio. Fin qui la cronaca, con la riserva di attendere la sentenza per consolidare l’una o l’altra narrazione.
Ciò che però ci preme particolarmente sottolineare, sotto il profilo della gestione della reputazione, è una certa discrasia tra la comunicazione di Acqua Sant’Anna – sempre impegnata a dimostrare quanto l’azienda fosse attenta nell’agire secondo dinamiche di concorrenza leali, concetto richiamato nel loro codice etico con specifici articoli dedicati al rapporto con i competitor – e quanto parrebbe essere accaduto in base, fin qui, alle risultanze d’inchiesta. L’articolo 4.1 del codice etico Sant’Anna, in particolare, afferma che “la Società riconosce l’importanza fondamentale di operare in un mercato competitivo, nel rispetto delle norme vigenti e di corretti principi economici e in leale competizione con i concorrenti. La Società si impegna, pertanto, a evitare pratiche che possano, in modo diretto o indiretto, contrastare con i principi comunitari e con le leggi in materia di concorrenza e si astiene da accordi illeciti, da comportamenti vessatori e da abuso di posizioni dominanti.”
L’indagine che ora li vede coinvolti, con tanto di rinvio a giudizio, pare far emergere una condotta molto diversa rispetto a quella indicata nel Codice etico dell’azienda, anche se gli avvocati difensori di Bertone e Chieri sono già al lavoro per dimostrare che quella notizia era da tempo nota nell’ambiente e che in realtà la pubblicazione dell’articolo non avrebbe danneggiato in modo considerevole il marchio Acqua Eva. Bene ricordare infine che per un’impresa la reputazione è il più prezioso degli asset intangibili, e un attacco come quello subito da Acqua Eva ha rischiato di compromettere irrimediabilmente la percezione positiva che i vari pubblici avevano dell’azienda. “Come siamo riusciti a riconquistare la fiducia? Lavorando, lavorando e ancora lavorando”, afferma Rivoira. “La nostra acqua è fra le migliori al mondo. Tanto ci è bastato, e con la giusta dose di fatica e passione ci siamo rialzati. Non abbiamo più avuto contatti con potenziali investitori, un peccato perché oggi saremmo in altri Paesi. Ma i nostri soci stanno investendo sempre di più, anche per gli incoraggianti risultati di mercato, che premiano un prodotto di eccellenza”.
Secondo un’indagine di Weber Shandwick dal titolo The state of corporate reputation, il 63 per cento del valore di mercato di un’organizzazione è attribuibile alla reputazione: la letteratura scientifica nel settore del reputation management, ci suggerisce oggi quanto la reputazione abbia un impatto diretto sul valore di qualunque organizzazione, sollecitando direttamente fattori come identità, immagine, notorietà e riconoscibilità, che influiscono sulla qualità delle relazioni con gli stakeholder e sul valore percepito dai clienti e più genericamente dai cittadini: una cattiva gestione della propria reputazione può portare a perdita di fiducia, di contatto e di sintonia con i propri pubblici, e scatenare crisi da cui è molto difficile uscire indenni. Del tutto a prescindere dagli esiti giudiziari di questa vicenda, resta l’annoso tema – qualora le male pratiche di Sant’Anna venissero confermate con sentenza definitiva – della coerenza e dell’autenticità di una società rispetto a quando declamato da un Codice etico che pare essere stato disatteso dagli stessi vertici della governance aziendale, circostanza, molto dibattuta nel mondo della comunicazione e della gestione della reputazione, che solleva due pressanti domande: quali saranno le iniziative che assumerà la stessa Sant’Anna – entità giuridica autonoma – nei confronti del proprio Presidente, sulla base del proprio modello organizzativo predisposto in ossequio alla legge 231/2001, e – ancor più interessante – quali saranno le iniziative che assumeranno i protagonisti della Gdo, sempre – a parole – molto attenti al profilo etico dei propri fornitori: le grandi catene, come Coop, Conad, Esselunga, sono ora sotto i riflettori, e le loro decisioni in esito a questa querelle impatteranno eccome sulla reputazione: la loro, in questo caso.
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