Acqua

Acqua, una lotta quotidiana nel Sahel senegalese. La storia di Issa Maou

L’acqua scarseggia nel nord del Senegal. I suoi abitanti sperano di essere ascoltati al World water forum di Dakar, ma la strada è ancora lunga e tortuosa.

“Il nostro più grande problema qui è l’acqua, dobbiamo cercarla sempre e il territorio è vasto”, esordisce Issa Maou, 56 anni, contadino, occhi stanchi ed espressione gentile, vive in un villaggio di una manciata di capanne insieme alla sua famiglia in piena savana, a più di trenta chilometri da Ndioum. “Possiamo stare anche due o tre giorni senza acqua, ma non c’è soluzione. Si può camminare per sei o sette chilometri, dove l’acqua che si beve viene dal fiume Ngalanka. Ma sappiamo che non è pulita lì. Ci bevono le capre, i bovini, le pecore, gli asini, i cavalli, tutti gli animali, e si lavano le persone. Così abbiamo spesso la diarrea, ma del resto devi bere”.

Alla nascita di suo figlio maggiore, 33 anni fa, ha lasciato il paese dove viveva per avere più spazio per la sua famiglia e per i suoi animali. “Qui c’era da mangiare e da bere e i nostri animali mangiavano a sazietà, non dovevamo allontanarci per farli mangiare, ma da qualche tempo è dura”, continua Maou. “La stagione delle piogge è diversa adesso. C’è vento, fa caldo, gli alberi si seccano e non cresce niente. Normalmente durante la stagione delle piogge l’erba cresce e la gente può coltivare, ma se non piove cosa coltiva la gente? Guarda com’è qui”, dice indicando un punto alla sua sinistra, “questo è il mio campo, quest’anno non ho coltivato. Normalmente raccolgo molti fagioli, ma quest’anno non ho coltivato perché non ha piovuto”.

Ci troviamo nel nord del Senegal, più precisamente nel Fouta-Toro, un’area compresa nella regione di Saint-Louis e particolarmente soggetta a fenomeni di desertificazione. Rientra infatti nella fascia del Sahel, la zona di transizione climatica tra la fascia desertica del Sahara e quella della savana che attraversa il continente africano trasversalmente, interessando più paesi. Il nome Sahel deriva dall’arabo sahil che significa appunto “limite”, “linea costiera” o “bordo del deserto”. Qui gli effetti dei cambiamenti climatici sono particolarmente evidenti. Stagioni delle piogge più brevi, insieme all’aumento della popolazione che grava sulle già scarse risorse dell’area, fanno guadagnare terreno al deserto inaridendo progressivamente un terreno già di per sé povero.

È pomeriggio inoltrato e il sole ha iniziato lentamente la sua discesa verso l’orizzonte sconfinato della savana. C’è una magnifica luce dorata e il silenzio è rotto solo da sporadiche raffiche di vento che alzano la sabbia. Tutt’attorno il paesaggio è punteggiato da bassi arbusti e nodosi alberi solitari, tenaci come Issa e tutti coloro che hanno trovato il modo di vivere in queste zone tanto affascinati quanto complesse. “Spesso la sete uccide i nostri asini. Succede perché trasportano i carretti con cui andiamo a prendere l’acqua, diversamente dalle mucche che vanno al fiume da sole, e i viaggi sono estenuanti. Nemmeno qualche mese fa abbiamo perso un asino lì”, mi dice indicando da qualche parte in lontananza fuori dal recinto che circonda le capanne. “A volte l’acqua finisce e loro muoiono. Sono così esausti da non riuscire ad andare al fiume ed è una preoccupazione trovare l’acqua con cui abbeverarli”. Un singolo asino significa una grossa perdita nell’economia di un nucleo familiare. Sono infatti fondamentali per trainare i carretti con cui la famiglia si sposta e soprattutto con cui trasporta l’acqua. Alla famiglia di Issa ora ne resta solo uno con cui fare tutto.

È il momento della preghiera. Il figlio maggiore mostra le taniche che compongono la loro riserva d’acqua potabile. Le controlla a una a una, e ogni volta il suono grave prodotto del contenitore di plastica non lascia dubbi. Ne resta solo una di piena, e dovrà durare il più possibile.

La mancanza di acqua nel Sahel senegalese
Fouta-Toro, regione di Saint-Louis. Dopo la morte di uno degli asini a causa della fatica e della sete nel trasportare l’acqua, a Issa ne rimane ora solo uno. Ciò significa doppio lavoro per l’asino rimasto e che uno dei due carretti non sarà operativo, con conseguenze sulla quantità d’acqua che riusciranno a trasportare © Andrea Ferro/LifeGate

“L’acqua è il nostro più grande problema”

“L’unico modo per trasportare l’acqua è tramite le camere d’aria, ma si bucano spesso e i carretti si rompono. Pensiamo all’acqua dalla mattina alla sera e nel frattempo la sete ti uccide. La nostra vita è così, non si sa come sarà il futuro”.

Gli chiediamo quali sono le soluzioni, la risposta è chiara e decisa: “Non abbiamo mai visto nessuna autorità governativa qui. Sanno che l’acqua è il nostro più grande problema. Tutto ciò che desidero è un aiuto per le famiglie che vivono qui, per avere accesso all’acqua. Ad esempio che ci aiutino ad avere un pozzo. Speriamo che Dio ci aiuti e che possiamo riposare, e anche i nostri asini. È tutto ciò che chiedo”.

Il sole è ormai basso all’orizzonte e l’atmosfera densa di polvere della savana produce una luce calda e tenue. Prima di congedarci, mentre condividiamo una ataya, il tradizionale infuso di tè verde e menta fresca, vero pilastro dell’accoglienza senegalese, gli chiedo cosa lo spinga a rimanere qui. “Non possiamo andarcene, è la nostra eredità. Non abbiamo altre terre su cui stabilirci. Qui è dove sono nati i nostri figli, dove abbiamo spazio per il bestiame; conosciamo i vicini, siamo abituati a questo ambiente e tutti sanno che siamo di qui. Facciamo molti sforzi per questa terra, ma non possiamo lasciarla”.

Fiume Senegal
Fiume Senegal nei pressi di Dagana. Persone intente a lavare i panni, lavarsi e rifornirsi d’acqua © Andrea Ferro/LifeGate

Una terra delicata e complessa

Nel Fouta-Toro, come nel resto del Sahel, la popolazione subisce sempre più la scarsità di accesso a risorse idriche, come acqua potabile o per abbeverare il bestiame da cui dipende per il proprio sostentamento. Nonostante la presenza del fiume Senegal, che segna il confine con la Mauritania, appena ci si allontana dalle sue rive il territorio si fa secco e sterile, e trovare l’acqua diventa la prima delle difficoltà che la popolazione deve affrontare, ma non l’unica. Molti infatti sono costretti a percorrere decine di chilometri ogni giorno per trovare acqua a volte non potabile. Caricano su carretti trainati da asini tutte le taniche di cui dispongono, talvolta enormi camere d’aria, e si dirigono verso il fiume o verso il pozzo più vicino. La ricerca dell’acqua è spesso affidata ai membri più giovani delle famiglie, impegnandoli quasi a tempo pieno. Dovendo impiegare la maggior parte del proprio tempo nell’aiutare la famiglia a rifornirsi d’acqua, molti giovani non hanno la possibilità di svolgere altre attività lavorative o di studiare.

Dagana

Dagana, ai confini del Fouta-Toro, è un piccolo centro abitato di poco più di ventimila abitanti situato sulle sponde del fiume Senegal, dove l’acqua potabile non basta per tutti. La crescita della popolazione nel tempo non è stata seguita da un adattamento delle infrastrutture idriche, e buona parte degli abitanti vive senza accesso diretto all’acqua potabile. L’unica stazione di pompaggio infatti, che prende l’acqua dal fiume per poi depurarla, non è più sufficiente. Per ovviare al problema, in attesa che una seconda stazione di pompaggio venga ultimata, la distribuzione avviene attraverso un tubo da cui le persone possono rifornirsi una volta al giorno riempiendo le loro taniche, oppure tramite un’autobotte che raggiungere le aree più distanti della città. Purtroppo la distribuzione è discontinua e varia a seconda della disponibilità d’acqua, e la cisterna effettua il suo percorso senza orari o giorni prestabiliti. Può passare anche la notte o non passare per giorni, e le persone sono costrette ad un continuo stato di allerta.

Mi sono unito a uno dei giri di consegna d’acqua potabile dell’autocisterna. Sono quasi le due del pomeriggio. Il sole è alto e picchia forte. A ogni sosta l’autista suona insistentemente il clacson per attirare le persone, e la strada sabbiosa da deserta e apparentemente sonnolenta inizia a popolarsi di persone che accorrono da ogni angolo radunandosi sul retro del veicolo, da dove partono tre lunghi tubi neri. “Di notte possiamo stare fino alle tre o alle cinque del mattino ad aspettare che l’acqua arrivi”, mi racconta Coumba, una delle donne accorse a riempire le taniche all’arrivo dell’autobotte.

“Non possiamo dormire e nemmeno i bambini. A volte quando alle otto del mattino li svegliamo per andare a scuola si rifiutano di alzarsi perché di notte ci hanno aiutato a trasportare l’acqua. Possiamo stare tutta la notte ad aspettare l’acqua e non venir riforniti”, prosegue Coumba mentre sorregge sulla testa una grossa bacinella di plastica piena d’acqua. “Quando arriva l’autobotte corriamo con i nostri contenitori ma è complicato perché ci sono tane persone e possiamo portarne solo due o tre. Non dormiamo abbastanza e per questo abbiamo spesso mal di testa. Se l’acqua non arriva, siamo obbligati a prendere l’acqua del pozzo. Una volta ho dovuto berla. Era la prima volta. Si sa che non è sicura perché a volte si vedono piccole larve. Per questo ci mettiamo la candeggina, e capita che noi e i nostri figli abbiamo mal di stomaco. Qui possiamo stare fino a sei o sette giorni senz’acqua”.

Dagana
Dagana, viavai di persone per rifornirsi d’acqua potabile all’autobotte © Andrea Ferro/LifeGate

Una situazione difficile da risolvere

Una soluzione unica al problema ovviamente non esiste. La sensazione è che si proceda a spot, con interventi puntuali per portare acqua potabile alle zone più remote o con maggior difficoltà. Spesso si tratta di raggiungere la falda acquifera tramite piccole pompe collegate a un rubinetto o di costruire torri dell’acqua che, attingendo alla falda freatica in profondità, immagazzinano l’acqua nella cisterna in quota per poterla così erogare grazie alla pressione naturalmente generata dalla forza di gravità.

La maggior parte degli interventi messi in campo nella regione di Saint-Louis, e quindi del Fouta-Toro, vede coinvolte a vario livello ong straniere. Uno di questi interventi si trova a circa 25 chilometri a sud di Ndioum, altro piccolo centro abitato situato più a est rispetto a Dagana. Il progetto è portato avanti dall’ong spagnola Ongawa ed è sul punto di essere ultimato. Comporta la costruzione di una torre dell’acqua insieme ad alcune cisterne e vasche per l’abbeveramento in piena savana, allo scopo di rifornire la popolazione dei vari villaggi sparsi un po’ ovunque nell’area, e così ridurre le distanze per il rifornimento d’acqua potabile o per abbeverare il bestiame. Ciononostante, c’è sempre chi deve percorrere tra i dieci e i venti chilometri o più per raggiungere il punto di rifornimento. La torre, con alla sommità la cisterna a cono, svetta sul piatto e sconfinato paesaggio circostante rendendola visibile già da grande distanza.

Lungo la via abbiamo incrociato diversi carretti di ritorno o diretti alla torre dell’acqua, e altri li abbiamo trovati intenti a rifornirsi una volta arrivati. Ancor prima di arrivare, dopo chilometri percorsi a bordo di un fuoristrada lungo piste sabbiose che solcano la terra riarsa, ciò che si vede è un’incredibile distesa di bovini intenti a pascolare e abbeverarsi. Fra i muggiti e i richiami dei pastori, la sabbia sollevata dagli animali e dal vento incessante rende l’aria densa e ha l’effetto di filtrare la luce del pomeriggio in varie sfumature giallo-grigiastre. All’ombra di un albero, a poca distanza dalla torre e da un’enorme pozza dove sguazzano alcuni bovini, si sono riuniti alcuni pastori dell’etnia fulani, una popolazione di allevatori nomadi dell’Africa occidentale che, seduti sul suolo polveroso, conversano osservando serafici e pensierosi le loro mandrie. Faranno ritorno ai loro villaggi quando il sole sarà meno violento, non prima che tutti gli animali si siano abbeverati. La quotidianità qui è questa, e l’acqua è il primo dei pensieri.

Ragazzino a Dagana
Dagana, un ragazzino sta finendo di riempire alcuni contenitori di plastica prima che l’autobotte riprenda il suo percorso di consegna. Spesso infatti sono i più giovani a occuparsi di andare a prendere l’acqua © Andrea Ferro/LifeGate

Un diritto cui non è facile avere accesso

La risoluzione Onu del 28 luglio 2010 dichiara per la prima volta nella storia il diritto all’acqua come “un diritto umano universale e fondamentale”. Nonostante ciò, ad oggi sono ancora 2,4 miliardi le persone che non hanno accesso a servizi igienici di base, e più di 660 milioni sono le persone sprovviste di fonti sicure d’acqua potabile. La scarsità d’acqua interessa infatti più del 40 per cento della popolazione mondiale. Un dato che si prevede in costante aumento negli anni a venire, anche a causa dei cambiamenti climatici in atto. Sempre più aree del Pianeta saranno colpite da siccità e sempre più saranno le persone costrette a spostarsi alla ricerca di migliori condizioni di vita. Questo, come è prevedibile, genererà nuove migrazioni umane, in parte già in atto, con conseguenti tensioni sociali e politiche nel medio e lungo periodo.

A più di dieci anni dalla risoluzione dell’Onu, l’accesso a fonti sicure d’acqua potabile resta per troppe persone ancora un miraggio. I riflettori sono quindi puntati sul nono World water forum in corso a Dakar fino al 26 marzo 2022, dal titolo “Water security for peace and development”. Nella capitale senegalese saranno riunite infatti tutte le principali associazioni e delegazioni governative attive a livello globale sulle politiche relative all’acqua, declinate in diverse forme, come “sicurezza e igiene dell’acqua; acqua per lo sviluppo rurale; cooperazione; mezzi e strumenti che comprendono le questioni cruciali del finanziamento, della governance, della gestione delle conoscenze e dell’innovazione. Quattro assi che costituiscono una priorità per l’Africa, ma anche per il mondo intero”. In molti, come Issa, sperano che le loro richieste vengano ascoltate, ma la sensazione è che ci sia ancora molto da fare.

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