Da conflitto a coesistenza, la relazione complicata tra umani e fauna selvatica

Dobbiamo ritrovare l’armonia tra noi e la fauna selvatica: è necessario per garantire la nostra salute, quella degli animali e del Pianeta.

Quando pensiamo al conflitto siamo probabilmente soliti associare il concetto ad episodi di tensione e violenza tra uomini, siano essi riuniti in comunità, regioni, Stati o qualsiasi altra forma di aggregazione. Tuttavia esiste un’altra forma di conflitto non meno violenta o dannosa. Si tratta di quella che coinvolge l’uomo e la fauna selvatica e, attualmente, è tra i principali fattori di rischio per moltissime specie iconiche che abitano il Pianeta.

In cosa consiste il conflitto tra umani e fauna selvatica

Il conflitto uomo-fauna selvatica (Human-wildlife conflict, Hwc) può essere definito come la rottura di un rapporto di coesistenza che, di norma, avviene quando le esigenze o il comportamento di una specie vanno ad influire negativamente su di un’altra e, molto spesso, finiscono con l’uccisione dell’animale. Tra le cause vi è la frammentazione dell’habitat, dovuta all’aumento dei terreni convertiti ad agricoltura e allevamento, l’urbanizzazione, la costruzione di infrastrutture che interrompono importanti corridoi di passaggio della fauna selvatica e la competizione per l’accesso alle stesse risorse. A questi si aggiungono i cambiamenti climatici che aumentano la competizione per cibo, acqua o territori, così come il comportamento errato delle persone che frequentano gli ambienti naturali e che, spesso convinte di avere a che fare con qualche protagonista di un film della Disney, avvicinano incautamente o nutrono specie che, un po’ alla volta, iniziano ad associare l’uomo al cibo e possono diventare pericolose. Può manifestarsi in molti modi diversi come, ad esempio, il danneggiamento del raccolto, l’uccisione del bestiame o degli animali domestici, la distruzione di una proprietà, o la minaccia per la sicurezza propria o altrui. Tutte situazioni che, soprattutto nelle regioni più povere del Pianeta, hanno conseguenze importanti per chi vive di agricoltura e allevamento.

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Urbanizzazione e frammentazione dell’habitat hanno portato al conflitto uomo-animale © Y2Y

Un conflitto senza confini

Tra le specie che meglio simboleggiano la rottura della fragile armonia tra uomo e la vita selvatica del Pianeta, infatti, vi è l’elefante africano (Lexodonta africana) che, negli ultimi anni, ha visto modificare le sue rotte migratorie a causa della frammentazione dell’habitat per fare spazio ai terreni agricoli e agli insediamenti umani. Questo ha fatto sì che i pachidermi si rendessero molto spesso, e a loro insaputa, responsabili della distruzione dei raccolti oppure che, in una regione e in un momento storico caratterizzati da frequenti crisi idriche, entrassero in competizione con l’uomo per l’accesso all’acqua. Ma gli elefanti non sono certamente le uniche vittime di una situazione che coinvolge ogni area del Pianeta e che, in un mondo che entro il 2050 si appresta ad essere abitato da quasi dieci miliardi di persone, sembra essere destinata a peggiorare esponenzialmente. Secondo il rapporto A future for all. The need for human-wildlife coexistence le uccisioni legate al conflitto uomo-animale colpiscono infatti più del 75 per cento delle specie di felini selvatici del mondo oltre a molti altri carnivori terrestri e marini, come gli orsi polari e le foche monache del Mediterraneo e, nel corso della storia, si è già reso responsabile della scomparsa di specie considerate nocive o pericolose. È il caso del Tilacino, il carnivoro marsupiale originario dell’Australia la cui popolazione, già resa più debole dalla competizione con il Dingo – il canide introdotto nel continente dagli europei – ha dovuto subire l’ingiusta accusa di essere un sanguinario predatore di bestiame e, dopo essere stato perseguitato per decenni, è stato condannato all’estinzione.

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A causa della crisi idrica, gli elefanti africani sono entrati in competizione con l’uomo per l’accesso all’acqua © iStockphoto

Il conflitto essere umano-fauna selvatica è anche un problema economico e sociale

Lungi dall’essere solo una questione di conservazione delle specie, il conflitto tra uomo e fauna selvatica dovrebbe essere letto anche alla luce della sua importanza per la salute umana e per lo sviluppo. Entrare in conflitto con un’altra specie e non lavorare o ricevere supporto per ristabilire una forma di coesistenza, incide infatti sul reddito di quelle popolazioni che dipendono dal raccolto e dal bestiame e che, molto spesso, vivono già al limite della soglia di povertà. Inoltre, la salute degli ecosistemi e la loro capacità di fornire servizi fondamentali alla nostra sopravvivenza – i così detti servizi ecosistemici come l’acqua potabile o l’impollinazione – dipendono proprio dalla fauna selvatica.

Per questo, affrontare il tema del conflitto tra uomo e animale è stato giudicato dalle Nazioni Unite come una priorità per il raggiungimento degli obiettivi di ripristino e conservazione della biodiversità al 2050 di cui si discuterà alla quindicesima Conferenza delle parti della Convenzione per la diversità biologica (Cop15) in programma a Montréal (Canada) nel mese di novembre. Consci di ciò, molti dei governi che saranno chiamati a confrontarsi in quello che dovremmo considerare un appuntamento prioritario per il futuro dell’umanità, stanno iniziando ad includere la gestione del conflitto uomo-animale nelle politiche e nelle strategie nazionali e a dedicare parte del proprio budget ad interventi infrastrutturali ed educativi. Gran parte delle strategie messe in atto globalmente fino ad oggi, infatti, si sono concentrate sul tentativo di mitigare il conflitto attraverso la creazione di barriere che limitassero lo spostamento della fauna selvatica (recinzioni, reti, trincee), l’impiego di deterrenti che ne dissuadessero l’avvicinamento (sirene, luci, alveari), il trasferimento di uno o più individui della specie oggetto di tensione, fino alla compensazione economica per i danni subiti. Tuttavia, alcune di queste soluzioni si sono dimostrate inutili o controproducenti soprattutto se in assenza di appositi processi di consultazione con le parti interessate. Il conflitto tra uomo e fauna selvatica non può essere letto, infatti, solo con la lente dell’economia e della politica ma deve passare per l’ascolto e la partecipazione delle comunità colpite e questo, il più delle volte, significa scontrarsi con ideali, valori e tradizioni culturali difficili da smussare o sradicare.

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Ponte per la fauna, sopra la Trans Canadian highway © Kelly Zenkewich

Yellowstone to Yukon: la coesistenza è un valore per tutti

Mentre l’uomo si avventura sempre più di frequente in territori che per centinaia di anni sono rimasti quasi inesplorati, pochissimi grandi ecosistemi possono dirsi, oggi, relativamente intatti e non interrotti da infrastrutture come autostrade, città, ponti o linee ferroviarie. Un’eccezione è rappresentata da una regione che si estende per 3200 chilometri tra il Wyoming nordorientale e la regione canadese dello Yukon e che, per questo, è stata scelta come prima meta del progetto Wane – We are nature expedition. Qui, ai piedi delle Tre sorelle, le cime quasi gemelle che appartengono all’enorme complesso delle Montagne Rocciose e che si riflettono in specchi d’acqua del colore del cielo, nasce nel 1993 Yellowstone to Yukon (Y2Y), un’organizzazione con sede a Canmore (Alberta, Canada) che lavora per facilitare la coesistenza a lungo termine tra le persone e i grandi carnivori. Un arduo compito perseguito attraverso campagne di educazione e la costruzione di infrastrutture che garantiscano la connessione tra ecosistemi e il passaggio della fauna attraverso lo storico corridoio che collega la vallata di Kananaskis e quella di Bow, in direzione del Parco nazionale di Banff. “Negli ultimi trent’anni gli ambientalisti hanno lavorato per unire questo enorme tratto di terra diviso da un’autostrada – la Trans Canadian highway – che vede il passaggio di 30mila veicoli al giorno. Un lavoro importantissimo che permette agli animali di spostarsi su vaste aree, sia in risposta a modelli di migrazione vecchi di centinaia di anni, che alle esigenze dettate dai cambiamenti climatici o da un’urbanizzazione crescente”, spiega Tim Johnson, Alberta program co-ordinator di Y2Y, “e i risultati si vedono visto che, dalla sua nascita, l’organizzazione ha contribuito ad aumentare le aree protette dell’ottanta per cento oltre a costruire ben 117 tra sottopassaggi, tunnel e ponti di cui, il prossimo, vedrà la luce nel settembre del 2023”. Il tutto grazie al supporto e al lavoro congiunto di una rete di partner che coinvolgono gruppi di conservazione, cittadini, proprietari terrieri, allevatori, aziende, agenzie governative, comunità di nativi e scienziati che, oltre alla pianificazione e messa in opera delle infrastrutture, hanno dato vita a percorsi di ascolto e coinvolgimento e attivato campagne di sensibilizzazione della popolazione locale per ridurre, e progressivamente eliminare, gli episodi di incontro e conflitto tra uomo e fauna selvatica.

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Orso nero nel centro urbano di Canmore © Davide Agati

“Le parole chiave, per noi, sono coesistenza e connessione. Questo luogo è fondamentale per tutti, sia per l’uomo che per le altre specie e dobbiamo fare tutto il possibile per difenderlo finché ne abbiamo la possibilità”, continua Johnson prima di guardare con orgoglio la foto scattata con il suo cellulare ad una femmina di orso nero che, con i suoi due cuccioli, attraversa indisturbata il centro urbano di Canmore. In un momento storico in cui i grandi carnivori, come lupi e orsi, e le popolazioni di ungulati, stanno aumentando in tutta Europa, quello di Yellowstone to Yukon dovrebbe essere un modello da studiare e replicare per prevenire tensioni e scontri che, in ultimo, si ripercuoteranno sia sull’uomo che su un mondo naturale già in estrema difficoltà. Esso inoltre, dimostra come la conservazione sia un percorso che nasce dal basso e possa trovare terreno fertile solo laddove vengono seminate conoscenza e consapevolezza del contributo che la fauna selvatica ha nel mantenere gli ecosistemi, e quindi l’uomo, in salute. Una realtà che trova riscontro nell’approccio One health, che spiega come la salute dell’uomo sia interconnessa a quella delle altre specie, e di Nature positive, un movimento globale che si batte per la tutela della natura e per il riconoscimento del suo contributo per lo sviluppo economico e sociale dell’intera umanità.

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