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Mentre la Corea del Nord prosegue i test nucleari, affermando di possedere una bomba H, gli Stati Uniti non sembrano avere una strategia chiara.
La tensione tra Corea del Nord e Stati Uniti è salita alle stelle nella serata di domenica 3 settembre. A qualche ora dall’annuncio del sesto test nucleare effettuato dal regime di Pyongyang, la Casa Bianca ha risposto spiegando di essere pronta ad impiegare il proprio arsenale atomico se il leader nordcoreano Kim Jong-un continuerà a “minacciare noi o i nostri alleati”. Un’affermazione in linea con il resoconto fornito dallo stesso governo americano, in merito ad una telefonata tra il presidente americano Donald Trump e il premier giapponese Shinzo Abe: il leader statunitense si è infatti detto pronto “a difendere la patria con tutti i mezzi diplomatici, convenzionali e nucleari a nostra disposizione”.
Ma la Corea del Nord rappresenta davvero una minaccia per le nazioni ad essa vicine e per Washington? Alcune risposte arrivano dall’analisi dei fatti: secondo l’agenzia sudcoreana di meteorologia, la bomba testata avrebbe avuto una potenza cinque o sei volte superiore rispetto a quella fatta esplodere nell’ultimo test (nel mese di settembre del 2016). Si potrebbe essere trattato, dunque, di un modello effettivamente più potente (10 chilotoni contro uno) o di una tecnologia diversa. Forse, all’idrogeno, come affermato dalle stesse autorità nordcoreane.
Queste ultime, tuttavia, avevano già assicurato che“si trattava di una bomba H” in occasione del quarto test, effettuato nel gennaio del 2016. Da parte di alcuni esperti internazionali, perciò permangono dei dubbi. Tanto più che le informazioni provenienti dalla nazione asiatica non sono di fatto verificabili. Ciò nonostante, la situazione appare comunque preoccupante, dal momento che Pyongyang ha lanciato alla fine di agosto un missile che ha sorvolato il cielo giapponese: si è trattato di un Hwasong-12 che ha percorso 2.700 chilometri prima di inabissarsi nel Pacifico. I progressi nel settore militare sono dunque innegabili.
La concomitanza dei due eventi – il test nucleare e il lancio del missile – tenderebbe inoltre a far pensare che la Corea del Nord sia in grado di imbarcare un ordigno nucleare su uno di tali vettori, colpendo se non il territorio americano di certo alcune basi militari statunitense. Ma occorre comprendere un fattore chiave: ovvero se i tecnici di Pyongyang siano già in grado di miniaturizzare in modo sufficiente la testata, al fine di fissarla sui propri missili, che non possono sopportare un carico superiore ai 500 chilogrammi.
Da parte sua, il 3 settembre, il regime asiatico ha annunciato di aver installato una prima testata su un missile balistico intercontinentale, affermando che all’evento avrebbe assistito lo stesso Kim Jong-un. L’agenzia di stampa ufficiale Kcna ha parlato di “svolta nel programma nucleare del paese”. Ma anche in questo caso, è impossibile effettuare una verifica certa sulla veridicità delle informazioni.
Ciò che si sa è che né il Giappone né la Cina (che pur mantenendo buone relazioni diplomatiche con Pyongyang ha condannato duramente il test nucleare) hanno rilevato sui loro territori la presenza di sostanze radioattive provenienti dalla Corea del Nord. Ciò nonostante, Seul non ha perso tempo e attraverso il proprio ministro della Difesa ha annunciato il rafforzamento dello scudo anti-missile di fabbricazione americana Thaad (Terminal High-Altitude Area Defense) presente sul proprio territorio (ad oggi sono installati due di tali sistemi e altri quattro potrebbero essere aggiunti prossimamente).
Nel frattempo, la Casa Bianca ha reagito con toni duri. Donald Trump ha puntato il dito contro la posizione della Cina “che cerca di dare una mano ma senza alcun risultato”, minacciando – seppur indirettamente – anche di chiudere gli scambi commerciali con Pechino. Mentre il segretario alla Difesa James Mattis ha parlato di “risposta militare massiccia” nel caso in cui la Corea del Nord dovesse minacciare realmente il territorio americano o quelli dei suoi alleati. Finora, però, non si è andati al di là di alcune esercitazioni militari.
Alcune testate internazionali indicano, tuttavia, come – se si esclude la retorica – la strategia di Trump appaia per lo meno poco chiara. I principali membri dell’esecutivo di Washington sembrano infatti muoversi in ordine sparso. Mentre Trump ha promesso, l’8 agosto “fuoco e furore” contro Kim, sette giorni dopo il segretario di Stato Rex Tillerson si è detto “sempre interessato dalla ricerca di una via di dialogo”.
Quindi è stata la volta del consigliere strategico del presidente Stephen Bannon, che il 18 agosto, poco prima di dimettersi dal proprio incarico, ha dichiarato in un’intervista che “non esiste una soluzione militare” per la questione della Corea del Nord. Al contrario, dopo il lancio del missile nel Pacifico, Trump ha ribadito che “parlare non è la soluzione”. Giusto poche ore prima che Mattis affermasse alla stampa: “Non siamo mai a corto di soluzioni diplomatiche”.
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