
L’edizione 2021 dell’Indice di percezione della corruzione, l’indagine annuale condotta da Transparency international, premia l’Italia.
La corruzione ostacola la crescita, danneggia le persone oneste, mette in crisi le istituzioni. E costa, tantissimo. Le cifre sono allarmanti.
9 dicembre, Giornata mondiale contro la corruzione. Il giorno giusto per riflettere su quanto la corruzione danneggi – a molteplici livelli – la società, l’equità, la giustizia e l’economia. In Italia e nel mondo. Capire quale sia il costo monetario della corruzione non è affatto facile, ma negli anni ne sono state proposte diverse stime.
Non poteva non occuparsi di corruzione il Fondo monetario internazionale (Fmi), che a maggio del 2016 ha pubblicato il paper Corruzione: i costi e le strategie per contrastarla. Le conclusioni sono nette e allarmanti. Se si fa la somma di tutte le tangenti pagate nel mondo ogni anno, si raggiunge una cifra compresa tra 1.500 e 2.000 miliardi di dollari. Vale a dire circa il 2 per cento del pil mondiale. E le tangenti sono soltanto una parte del problema. La corruzione ostacola la crescita inclusiva, compromette la fiducia nelle istituzioni, indebolisce gli stati e li priva di entrate fiscali, fa lievitare i costi degli investimenti pubblici e privati.
Per comprendere quanto è presente e grave la corruzione, si può anche interpellare chi la subisce: le persone comuni, quelle oneste, che devono farci i conti giorno dopo giorno. Transparency International lo fa dal 2003 con il suo barometro globale di percezione della corruzione (Gcb), un sondaggio che si rivolge direttamente ai cittadini. A metà novembre Transparency International ha pubblicato un’edizione aggiornata, che mette insieme una serie di rilevazioni condotte a livello locale. Stiamo parlando di 160mila persone intervistate in 119 paesi, tra il mese di marzo 2014 e il mese di gennaio 2017.
I dati parlano chiaro. 57 persone su 100 bocciano il proprio governo in materia di lotta alla corruzione; la sfiducia è tangibile soprattutto nei paesi del Medio Oriente, del Nord Africa e dell’Africa Subsahariana, mentre le opinioni dei cittadini europei e americani si spaccano a metà. Quando viene loro chiesto quali sono le categorie più corrotte, i cittadini citano prima di tutto i politici e le cariche dello stato. Tedeschi, svizzeri, svedesi, australiani e olandesi si discostano nettamente da questa tendenza, dichiarando una maggiore fiducia nei confronti delle istituzioni. Ma forse i dati più sconcertanti sono quelli che riguardano la vita quotidiana, quelli che fanno capire come certi meccanismi illeciti abbiano compromesso nel profondo alcuni servizi che dovrebbero essere a disposizione di tutti, senza bisogno di scorciatoie. Un cittadino su quattro, nel mondo, dichiara di aver pagato una tangente negli ultimi 12 mesi per accedere a un servizio pubblico. La percentuale schizza verso l’alto nelle ex-repubbliche sovietiche, in Medio Oriente e nel Nord Africa.
Se in Italia la corruzione fosse allo stesso livello rispetto alla Germania, come cambierebbero le nostre vite? A porsi questa domanda è stato Lucio Picci, professore ordinario all’università di Bologna. La prima precisazione è che dare una risposta è difficile.
“Per primo, abbiamo un’idea solo vaga di quanta corruzione vi sia. Secondo, anche se ne avessimo contezza, calcolarne il costo sarebbe comunque complicato (l’entità del fenomeno, e il suo costo, non sono la stessa cosa). Terzo, la corruzione ha dei costi non soltanto economici, e per questo difficili da quantificare”. Detto questo, il professor Picci arriva ad affermare che, se in Italia ci fosse la stessa corruzione che c’è in Germania, il reddito annuo degli italiani sarebbe più alto di quasi 10mila euro. Il che corrisponde a circa 585 miliardi di euro in più di reddito nazionale.
357 favorevoli e 46 contrari, più 15 astenuti.
Dopo 1 anno e 3 mesi di lotta abbiamo vinto.#Whistleblowing #vocidigiustizia https://t.co/07NoQXnAKk— Riparte il futuro (@riparteilfuturo) 15 novembre 2017
La lotta alla corruzione non si risolve certo dall’oggi al domani. Però esistono alcuni strumenti operativi che sono utili, se non altro, per creare le condizioni giuste. Uno di questi nasce nei paesi anglosassoni e prende il nome di whistleblowing. Il whistleblower altro non è che il dipendente che segnala qualsiasi condotta irregolare che si è verificata all’interno dell’organizzazione (pubblica o privata) per cui lavora. Inutile dire che questo sistema si può affermare soltanto se il dipendente è sicuro di non rischiare ritorsioni. Per questo, Transparency International Italia ha pubblicato delle linee guida con cui propone – tra le altre cose – di garantire l’anonimato di chi fa la segnalazione, tutelarlo dalle possibili ripercussioni ed eventualmente premiarlo per la sua onestà.
Il 15 novembre il Parlamento ha approvato la prima legge italiana sul whistleblowing, che afferma a chiare lettere che il dipendente che segnala un illecito ai responsabili anticorruzione, all’Anac o alla magistratura “non potrà essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altre misure ritorsive”. Gli eventuali licenziamenti già avvenuti, così come gli altri atti discriminatori o ritorsivi, sono nulli e vanno denunciati. L’onere della prova è invertito: ciò significa che non è chi denuncia a dover provare di aver subito una ritorsione, ma è l’ente coinvolto a dover dimostrare la propria estraneità. La legge non prevede segnalazioni anonime, ma vieta di rivelare l’identità del whistleblower. Con l’approvazione di questa legge, l’Italia si è voluta dotare di incentivi e garanzie per chi sceglie la strada dell’onestà. Che non è una rinuncia né un peso, ma un valore aggiunto per la società e l’economia.
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