Secondo il dossier Stop Pesticidi nel piatto 2025 di Legambiente, su 4.682 campioni di alimenti, il 48 per cento contiene residui di sostanze chimiche.
L’etichetta di un alimento deve riportare la data di scadenza o il termine minimo di conservazione. Ecco la differenza e come comportarsi davanti a un cibo scaduto.
Lo mangio o lo butto? Davanti a un alimento scaduto spesso non si sa come comportarsi. Se da una parte non si vorrebbe sprecare cibo, dall’altra nel consumarlo c’è sempre qualche timore riguardo ai rischi per la salute. Cerchiamo, allora, di fare chiarezza sulla data di scadenza degli alimenti.
Il regolamento europeo 1169/2011 stabilisce l’obbligo di indicare nell’etichetta degli alimenti il termine minimo di conservazione o la data di scadenza. Questi hanno regole di utilizzo differenti e vengono indicati con due diciture (leggermente) diverse che hanno un differente significato.
Il termine minimo di conservazione è la data fino alla quale un prodotto mantiene le sue proprietà specifiche in adeguate condizioni di conservazione. Questo significa che successivamente alla scadenza del termine minimo di conservazione il prodotto può perdere alcune proprietà organolettiche e nutrizionali originarie – come la fragranza, ad esempio – ma che si può consumare in sicurezza.
Il termine minimo di conservazione è indicato in etichetta dalla dicitura “Da consumarsi preferibilmente entro” a cui segue la data o l’indicazione del punto della confezione in cui è presente la data (es. vedere il tappo).
Si utilizza per alimenti quali biscotti, tonno in scatola, conserve di pomodoro, creme spalmabili, pasta, riso, sottaceti. Per i prodotti conservabili per meno di tre mesi, è sufficiente l’indicazione del giorno e del mese; per i prodotti conservabili per più di tre mesi ma non oltre diciotto mesi, è sufficiente l’indicazione del mese e dell’anno; per i prodotti conservabili per più di diciotto mesi, è sufficiente l’indicazione dell’anno.
Se necessario, l’indicazione del termine minimo di conservazione è accompagnata dalla descrizione delle modalità di conservazione che devono essere garantite per il mantenimento del prodotto per il periodo specificato (es. conservare in frigo e consumare entro 3 giorni dall’apertura).
L’indicazione del termine minimo di conservazione non è richiesta nei casi di frutta e verdura fresche (fatta eccezione per quelle già tagliate o sbucciate), patate, vini e liquori, prodotti della panetteria e della pasticceria che, per loro natura, sono normalmente consumati entro le ventiquattro ore successive alla fabbricazione. Ma anche per aceti, sale da cucina, zucchero, gomme da masticare.
Il regolamento europeo prevede che nel caso di alimenti molto deperibili dal punto di vista microbiologico (come i latticini freschi o la pasta fresca, ad esempio) che potrebbero pertanto costituire, dopo un breve periodo dalla produzione, un rischio per la salute umana, il termine minimo di conservazione debba essere sostituito dalla data di scadenza.
La data di scadenza viene indicata con la dicitura “Da consumare entro” seguita dalla data stessa o dall’indicazione del punto in cui essa è presente sull’etichetta. La data deve riportare in forma chiara e nell’ordine il giorno, il mese ed eventualmente l’anno ed è presente su ogni singola porzione preconfezionata. La data di scadenza è seguita dalla descrizione delle condizioni di conservazione da rispettare.
Successivamente alla data di scadenza, dunque, un alimento è considerato a rischio. Sul cibo scaduto come pesce o carne freschi c’è la possibilità che si siano sviluppate cariche batteriche che possono essere nocive per l’organismo e fonte di disturbi quali, ad esempio, dolori intestinali, vomito, diarrea.
Una recente bozza di revisione delle norme sulla data di scadenza degli alimenti redatta dalla Commissione europea contiene la proposta di riportare nell’etichetta degli alimenti, accanto al termine minimo di conservazione, la dicitura “Spesso buono oltre”.
Lo scopo sarebbe quello di consentire una migliore comprensione della data di scadenza da parte dei consumatori orientando il processo decisionale “in merito all’opportunità di consumare o eliminare un alimento”, con l’obiettivo di contrastare lo spreco alimentare.
Secondo la bozza del provvedimento, “la maggior parte dei consumatori non comprende appieno la distinzione tra le etichette da ‘consumare entro’ come indicatore di sicurezza e ‘da consumarsi preferibilmente entro’ come indicatore di qualità”. La formula più diretta “spesso buono oltre” servirebbe dunque a fare chiarezza. L’aggiunta, inoltre, aiuterebbe a ridurre lo spreco di cibo, che in Europa raggiunge i 57 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari (127 chili per abitante) all’anno.
La proposta ha fatto discutere: “Espressioni come “spesso buono dopo” possono sollevare preoccupazioni a causa delle incertezze relative alla responsabilità legale degli operatori del settore alimentare con possibili conseguenze per l’integrità del marchio”, hanno dichiarato da Federalimentare. “Ciò è dovuto al fatto che concetti come ‘spesso’, ‘buono’ e ‘dopo’ non possono essere legalmente definiti”. Per la federazione la dicitura si dovrebbe applicare in modo volontario e non su tutti i prodotti.
“Eventuali aggiunte in etichetta che aiutino a fare scelte di acquisto consapevoli sono positive purché siano chiare e ben comprensibili, senza generare confusione”, ha affermato Coldiretti sottolineando l’importanza che si mantenga, accanto alla dicitura “spesso buono oltre”, il termine minimo di conservazione.
In realtà la dicitura “Spesso buono oltre” si può già trovare su alcune confezioni di alimenti: nel 2021 l’app anti-spreco Too Good To Go ha lanciato l“Etichetta Consapevole” immettendo sul mercato, in collaborazione coi suoi partner, 10 milioni di prodotti con l’indicazione aggiuntiva per invitare i consumatori a riflettere sul tema e ad approfondire lo stato dell’alimento attraverso i sensi valutandone aspetto, sapore e gusto.
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