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I fiori hanno iniziato a produrre più pigmenti per proteggersi dai raggi UV. Un fenomeno che non è visibile agli occhi umani ma incide sull’impollinazione.
I cambiamenti climatici costringono gli uccelli migratori a modificare le proprie rotte, rendono meno nutrienti il riso e il grano, spingono i koala a scendere dalle piante di eucalipto per abbeverarsi. Finora pochi potevano immaginare che facessero addirittura cambiare il colore dei fiori. È la conclusione a cui è giunta una ricerca dell’università di Clemson, in South Carolina, pubblicata dalla rivista scientifica Current biology.
I ricercatori hanno esaminato 1.200 esemplari di piante che sono stati conservati nell’arco di 75 anni, tra il 1941 e il 2017. Il campione comprende 42 diverse specie raccolte negli Stati Uniti, in Australia e in Europa. Tramite una camera sensibile ai raggi ultravioletti hanno potuto rilevare le variazioni nei pigmenti dei fiori, scoprendo che la concentrazione di pigmenti capaci di assorbire i raggi UV è costantemente aumentata, mantenendo una media del 2 per cento annuo nell’intero periodo considerato.
A innescare questo comportamento adattivo, spiegano gli scienziati, sono l’aumento delle temperature e il calo delle concentrazioni di ozono. Entrambi i fenomeni, infatti, hanno come esito una maggiore esposizione ai raggi ultravioletti emanati dal sole. Proprio gli esseri umani, le piante hanno bisogno della luce del sole ma possono essere danneggiate quando le radiazioni sono troppo intense. I pigmenti dei petali in questo senso agiscono come una crema solare, che assorbe i raggi ed evita che essi compromettano la funzionalità del polline.
A suffragare questa tesi è il fatto che la quantità di pigmenti sia più alta proprio nei petali di quei fiori che crescono ad altitudini elevate, o in prossimità dell’Equatore. E che, quindi, risultano maggiormente esposti ai raggi UV.
Anche la conformazione dei fiori sembra avere un’influenza sulla loro strategia di adattamento. In quelli a forma di piattino che hanno il polline esposto, come il ranuncolo, i pigmenti aumentano nei territori che vedono una diminuzione dello strato di ozono e viceversa. Quando invece il polline è custodito all’interno dei petali, come nell’erba vescica comune, i pigmenti diminuiscono con l’aumento delle temperature esterne, indipendentemente dalle variazioni nei livelli di ozono.
Un’osservazione che “ha del tutto senso”, sostiene Charles Davis, biologo dell’università di Harvard interpellato da Science Mag per commentare lo studio. Nel caso appena citato infatti sono i petali a proteggere il polline dall’esposizione ai raggi UV. Questa copertura naturale tuttavia finisce per intrappolare il calore; e così, con l’aumento delle temperature esterne, il polline rischia di “cuocere”. Diminuire la quantità di pigmenti significa assorbire meno radiazioni solari e scongiurare questo effetto serra.
Questo fenomeno non è privo di conseguenze. Pur essendo impercettibili all’occhio umano, infatti, le variazioni nei pigmenti sono un segnale per gli animali impollinatori. Per motivi che gli scienziati non sono ancora riusciti a decifrare del tutto – spiega Matthew H. Koski, primo autore della ricerca – api e colibrì preferiscono i fiori in cui la punta dei petali riflette i raggi UV e, invece, i pigmenti che li assorbono sono concentrati verso il centro. Le variazioni che sono state riscontrate in questo studio potrebbero appianare tale contrasto, rendendo i fiori meno attraenti per gli impollinatori.
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