Se l’acqua radioattiva di Fukushima finisse nell’oceano

Versare l’acqua contaminata di Fukushima in mare aperto è la proposta fatta a Tokyo da parte di un gruppo di esperti. Un biochimico marino ci spiega le conseguenze di questa scelta assurda.

Dopo anni dal disastro nucleare di Fukushima non c’è ancora una soluzione per lo smaltimento dell’acqua contaminata della centrale giapponese colpita dallo tsunami dell’11 marzo 2011. Un comitato di esperti del ministero dell’Industria giapponese ha recentemente consigliato al governo guidato dal primo ministro Shinzo Abe di sversare nell’oceano l’acqua radioattiva. Già lo scorso settembre, il ministro giapponese per l’Ambiente Yoshiaki Harada aveva indicato questa ipotesi come unica soluzione possibile. Si tratterebbe di oltre un milione di tonnellate di acqua contaminata che, dal disastro nucleare di nove anni fa, è stata convogliata in serbatoi di stoccaggio all’interno dell’impianto.

Dove finirà l’acqua radioattiva di Fukushima a pochi mesi dalle Olimpiadi?

La dichiarazione del ministro, già a suo tempo, aveva sollevato grandi polemiche tra i pescatori e gli ambientalisti giapponesi, anche se ufficialmente non è ancora stata sostenuta dal governo. L’accumulo di acqua contaminata a Fukushima ha determinato uno stallo nell’opera di bonifica dell’impianto. Quest’anno, inoltre, le Olimpiadi si terranno a Tokyo e alcuni eventi si svolgeranno a meno di 60 chilometri dalla centrale. Ma quali sarebbero le implicazioni di un’eventuale soluzione di smaltimento come quella proposta dal comitato e dal ministro?

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Ken Buesseler, biochimico marino del Woods hole oceanographic institution (Whoi), il più grande istituto di ricerca oceanografica indipendente degli Stati Uniti, effettua, insieme al suo team e periodicamente dal 2011, ricerca sul campo a Fukushima. Insieme a Buesseler, che ha rilasciato in esclusiva un’intervista a LifeGate, cerchiamo di fare luce sulle problematiche legate non solo alla soluzione di smaltimento ma anche al sistema di stoccaggio dell’impianto.

Dal 2013 è ufficialmente in funzione un impianto di decontaminazione dell’acqua che proviene dai reattori e che, appunto, viene poi immagazzinata nei serbatoi di stoccaggio. Ad oggi sono state trattate più di un milione di tonnellate d’acqua contaminata, immagazzinata in oltre mille serbatoi che aumentano al ritmo di uno a settimana. Secondo la La Tokyo electric power company (Tepco), la compagnia elettrica che gestisce l’impianto di Fukushima, la capacità massima è di 1,37 milioni, cifra che sarà raggiunta nel 2022. Dopodiché non ci sarà più spazio.

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Panoramica dei serbatoi di stoccaggio di acqua contaminata nell’impianto della centrale nucleare di Fukushima.
© Christopher Furlong/Getty Images

“Loro [i dirigenti Tepco, ndr] dicono che non hanno più spazio, ma io credo che su questo si possa controbattere”, afferma Buesseler. “Una veduta aerea dell’impianto di stoccaggio di Fukushima mostra chiaramente che ci sarebbe abbastanza spazio per continuare a costruire serbatoi nelle zone circostanti, ma forse quello spazio vogliono destinarlo ad altro? Eppure quei terreni sono off-limits per costruire abitazioni o mettere su attività commerciali, quindi stanno facendo la scelta di non impiegare spazio che comunque non è attualmente utilizzato in nessun altro modo? Io credo che abbiano messo il carro davanti ai buoi nel dire, ‘siccome stiamo finendo lo spazio allora scarichiamo tutto in mare’”.

Come si monitorano i contaminanti di Fukushima

Il rilascio continuo di radionuclidi dai serbatoi di Fukushima e dalle acque sotterranee deve essere valutato attentamente poiché il carattere e la combinazione dei radionuclidi cambia continuamente. “Il problema non è la presenza del trizio [un isotopo radioattivo dell’idrogeno, ndr] nei serbatoi, quanto quella di altri isotopi radioattivi. Un anno fa Tepco ha realizzato un sito web dove vengono elencati alcuni di tali contaminanti, come lo stronzio 90, il litio, lo iodio 129, e altri che sono stati identificati nei serbatoi in quantità maggiore rispetto a quella legalmente consentita per lo scarico. Le acque dovrebbero, quindi, essere trattate ma attraverso la lettura dei dati presenti sul sito, non è evidente che ciò stia avvenendo”, continua Buesseler.

“Ad esempio, la quantità di stronzio 90 presente in questo momento nel singolo serbatoio di cui sto osservando i dati, risulta essere 10mila volte più alta rispetto alla quantità autorizzata ad essere rilasciata per legge. Ho controllato i livelli dei contaminanti a marzo e di nuovo adesso, poco prima dell’intervista, e in nessuno dei due casi mi è chiaro dai dati presenti sul sito, se si stiano effettivamente occupando della rimozione degli isotopi radioattivi più dannosi”.

Alternative di smaltimento e l’emivita

Tuttavia, aggiunge Buesseler, esistono possibili alternative per lo smaltimento delle acque contaminate. Una di queste si basa sulla cosiddetta emivita degli isotopi radioattivi, ovvero il tempo in cui decade metà della massa iniziale dell’elemento chimico radioattivo.

“Il trizio ha un’emivita di circa dodici anni, dopodiché c’è un decadimento radioattivo del 50 per cento. Sono già passati otto anni dal 2011, e quindi c’è meno trizio adesso di quanto ce n’era allora”, spiega Buesseler. “Se si aspettassero altri 60 anni, e nel frattempo si costruissero nuovi serbatoi, si consumerebbe il 97 per cento del trizio tramite il decadimento radioattivo. Quei 60 anni ci darebbero un calo radioattivo del 97 per cento. Certo, non ce ne potremo liberare definitivamente, ma sicuramente possiamo fare in modo che ci sia una riduzione significativa”.

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Alcuni lavoratori della Tepco e della Kajima Corporation scattate all’impianto di Fukushima Daiichi, 2016.
© Christopher Furlong/Getty Images

Il ministro ha aggiunto nella sua dichiarazione che le acque contaminate verrebbero diluite prima dello sversamento in mare. Questo processo servirebbe a rendere le acqua contaminanti meno dannose? “Diluire l’acqua potrebbe aiutare a diminuire l’impatto di isotopi come il trizio, ma per quanto riguarda gli altri agenti contaminanti come lo stronzio, il litio o il cobalto, la quantità totale rilasciata sarebbe la stessa che poi andrebbe ad accumularsi nel biota e nel fondale marino,” spiega Buesseler.

“Il trizio è come una forma d’acqua e quindi si sposterebbe con le correnti, gli altri isotopi, invece, finirebbero per aumentare creando una concentrazione a livello locale dannosa per i pesci. La chimica per ognuno dei radionuclidi è diversa, ecco perché è importante pre-monitorare e regolarsi di conseguenza”, continua Buesseler.

Anche se l’acqua radioattiva fossero scaricate negli oceani, sono le correnti a dettarne la direzione. Si accumulerebbero nel fondale oceanico oppure nel biota marino seguendo le correnti.Ken Buesseler, Whoi

Ognuno di questi isotopi contaminanti assume un comportamento diverso nell’oceano e nella fauna oceanica. Lo stronzio 90, per esempio, è problematico perché mimica il comportamento del calcio, finendo per accumularsi nelle ossa dei pesci al contrario, invece, del trizio che passa velocemente attraverso il pesce come se fosse acqua. Secondo Buesseler sarebbe opportuno attivare un sistema di monitoraggio continuo e indipendente che in questo caso sembrerebbe non essere stato ancora preso in considerazione.

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“La mia opinione è che si dovrebbe fare un monitoraggio indipendente non solo di ciascuno dei serbatoi di stoccaggio per capire cosa c’è dentro, ma anche  dei livelli degli isotopi radioattivi negli oceani dopo un eventuale scarico. Invece non ho sentito di alcun programma per un monitoraggio di questo genere, quindi la dichiarazione del ministro mi è sembrata davvero affrettata”, continua Buesseler.

“Ovviamente anche avere un impianto di stoccaggio di acqua radioattiva in una zona sismica è problematico, quindi si tratta sempre di fare un trade-off tra i rischi”.

E a livello ingegneristico si può fare qualcosa? “Inizialmente le pareti dei serbatoi erano fissate con dei bulloni rendendoli vulnerabili a perdite. Adesso i serbatoi sono saldati, ma, in ogni caso nessuna di queste cisterne è stata costruita con l’obiettivo di resistere per 60 anni, quindi bisognerebbe costruire nuovi serbatoi antisismici più grandi”, spiega Buesseler.

Le conseguenze di uno sversamento di acqua radioattiva sul mercato del pesce

La dichiarazione del ministro non solo aveva riportato in primo piano le problematiche legate all’impianto di Fukushima, ma aveva naturalmente fatto insorgere le associazioni di pescatori. Negli ultimi anni, infatti, il prezzo del pesce sul mercato è tornato ai livelli precedenti al disastro nucleare del 2011.

“La buona notizia per il Giappone è che negli ultimi quattro anni il pesce che proviene dalle zone costiere di Fukushima, che dal 2011 viene continuamente controllato per testarne la radioattività, non ha mai superato la soglia di tossicità consentita da standard rigidi”, conferma Buesseler. “Quindi vengono anche da una fase di riapertura del mercato del pesce”.

Rilasciare le acque contaminate in mare aperto, dunque, risulterebbe un problema che coinvolgerebbe anche altri stati. La Corea del Sud, ad esempio, ha espresso le proprie preoccupazioni. Seul, che non ha ancora revocato il divieto introdotto nel 2013 per fermare l’importazione del pesce da Fukushima, ha dichiarato la settimana scorsa che lo smaltimento dell’acqua contaminata negli oceani rappresenterebbe una “grave minaccia” per l’ambiente marino. I funzionari giapponesi del settore della pesca hanno però sottolineato che  in base ad un rigoroso test, è vietata la vendita di qualsiasi pesce contenente più di 50 becquerel di materiale radioattivo per chilogrammo. Una soglia molto più bassa rispetto allo standard di 100 becquerel per chilogrammo osservato nel resto del Giappone.

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Un potenziale offerente esamina attentamente il tonno per accertarne la qualità e stimarne il prezzo al mercato del pesce di Tsukiji a Tokyo, Giappone.
©Daniel Berehulak /Getty Images

Secondo Buesseler, non sembra esserci un rischio vero e proprio per la Corea del Sud. “Gli oceani non vanno nella loro direzione. Anche se le acque radioattive fossero scaricate negli oceani, sono le correnti a dettarne la direzione. Si accumulerebbero nel fondale oceanico oppure nel biota marino seguendo le correnti. C’è una corrente molto forte a sud del Giappone, la corrente di Kuroshio che arriva fino allo stretto di Bering, io la chiamo la corrente del golfo del Pacifico. Ecco perché nel 2011, dopo l’incidente di Fukushima, erano tutti preoccupati sulla costa ovest degli Stati Uniti. Credevano che la radiazione arrivasse fino a lì, e infatti è stato così, anche se misurabile solo in quantità minime. Paesi come la Corea del Sud hanno davvero poco di cui preoccuparsi”.

La percezione del rischio è un’altra

Eppure, bisogna tenere in considerazione che, in casi come questo, ciò che conta è la percezione dei consumatori. Smaltire acque radioattive nell’oceano andrebbe a creare un corto circuito nel settore ittico della regione.

“Ciò che ha dichiarato il ministro non mi sembra il messaggio giusto se vuoi promuovere il pesce giapponese. La percezione del pubblico, infatti, è tale che qualsiasi smaltimento di acque contaminate nell’oceano, frenerebbe i consumatori dall’acquisto di pesce proveniente da quella regione”, afferma Buesseler. “Indipendentemente dal fatto che il rischio sulla salute sia reale o meno, esiste una percezione del rischio elevata”.

Forse è proprio per questo che il governo giapponese fino ad ora non ha ufficialmente sostenuto la dichiarazione del suo ministro. Anche le direttive degli esperti dovranno essere ufficialmente accolte dal capo del comitato, il professor Ichiro Yamamoto dell’Università di Nagoya, presentata al governo in una data successiva che non è ancora stata fissata.

“Il governo, per quel che ne so, non ha ancora deciso cosa fare con l’acqua nei serbatoi – conclude Buesseler – ma in ogni caso dubito che si metteranno in moto prima delle Olimpiadi di Tokyo 2020”.

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