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Io Capitano, di Matteo Garrone, è il film candidato agli Oscar per l’Italia. La trama racconta il viaggio di due migranti adolescenti verso il nostro Paese.
Sarà il film “Io Capitano”, a rappresentare l’Italia ai prossimi Academy awards, i prestigiosissimi Oscar del cinema, nella categoria dei film internazionali: Matteo Garrone, coraggioso regista di un film unico nel suo genere, ha superato la concorrenza di mostri sacri come Nanni Moretti, Marco Bellocchio, Gabriele Salvatores. Ma soprattutto, ha superato le possibili reticenze della commissione di selezione, scelta dall’Anica, per via della storia che Garrone racconta: quella di due adolescenti senegalesi che partono per la lunga odissea migratoria, con l’Italia come destino finale.
Un film dal forte sapore politico, e di una incredibile attualità, che politico però non vuole essere, come ha spiegato lo stesso Garrone presentandolo al Nuovo Sacher a Roma, la scorsa domenica, con al fianco lo stesso Nanni Moretti, praticamente alla vigilia della sua ‘vittoria’ (che fa seguito al Leone d’Argento vinto al Festival di Venezia): “Non volevo mandare un messaggio politico – assicura Garrone – Volevo semplicemente raccontare una storia, la storia di persone che vanno via per cercare un futuro migliore, per seguire le proprie aspirazioni”. Certo, ha aggiunto il regista, “mi piacerebbe se Io Capitano venisse proiettato nelle scuole. E sto pensando anche a una proiezione in Parlamento…”.
Io Capitano racconta il viaggio avventuroso di due giovani, Seydou e Moussa, che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa. Un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia e i pericoli del mare, tutti mostrati con un occhio e una fotografia lucida, talvota onirica, capace di indugiare giusto il necessario sulle scene più scabrose: del resto Io Capitano non è un documentario, non è un film di denuncia per stessa ammissione dell’autore, ma intrattenimento, seppure impegnato.
Che non è un difetto, perché probabilmente permetterà a una domanda bruciante, la cui risposta è nota in letteratura (che cosa passano veramente le persone che giungono fino a Lampedusa, fino alla Sicilia?) di uscire dalla bolla di chi queste cose già le sa, di chi si informa, per arrivare a tanti altri che ancora non lo sanno e forse non lo avrebbero mai saputo.
Non è un film politico, ha ragione Garrone, almeno non del tutto. Lo è chiaramente nella scelta della storia, meno nel suo svolgimento: per scelta, Garrone (che ha scritto la storia avvalendosi di tanti racconti di migranti che il viaggio lo hanno fatto veramente) fa partire Seydou e Moussa da una Dakar povera ma dignitosa, non disperata. I due giovani non sono migranti climatici, non fuggono da guerre fratricide, non muoiono di fame: semplicemente, sono due giovani che come chiunque sognano un futuro migliore, possibilmente di sfondare nella musica e perché no, “firmare autografi ai bianchi”.
L’Odissea sconvolge chi non sa (le corse folli nel deserto stando attenti a non cadere dal pickup, perché non ci si ferma a riprenderti; i ricatti e gli abusi nelle carceri libiche, le tensioni e la claustrofobia del viaggio in mare), ma colpisce anche chi conosce già tutti i dettagli, perché per la prima volta li può vedere con gli occhi, immagini su pellicola. E la messinscena del viaggio, quel che è più importante, convince anche chi quel dramma lo ha vissuto davvero: ce n’erano diversi in sala, durante la nostra proiezione, e hanno confermato la fedeltà della ricostruzione.
(no, queste sotto non sono riprese del film, ma scene vere dalla Libia, ndr)
Seydou e Moussa, alla fine, non saranno tra i più sfortunati, soprattutto nelle fantomatiche carceri degli aguzzini libici, e il perché lo spiega al pubblico lo stesso Garrone, e non fa una piega: “Esiste una ampia documentazione di forme di tortura e condizioni talmente disumane, che se le avessi messe in un film sarebbero sembrate addirittura poco reali, incredibili. Per questo ho preferito lavorare di sottrazione”. Forme di tortura impressionanti, documentate per esempio da Amnesty International.
Solo una cosa manca, per ora, a Io Capitano: un sequel. La storia di Seydou, il giovane protagonista del film, è ispirata a quelle vere di Kouassi Pli Adama Mamadou e Fofana Amara, messi al timone in Libia senza aver mai visto una barca prima di allora e capace di portare in salvo centinaia di persone. Il loro eroismo fa il paio con la fortuna di essere ancora minorenni, e quindi non imputabili di scafismo: eppure per ogni Mamadou e Seydou, in Italia ci sono decine di maggiorenni il cui stesso eroismo è ripagato con anni di galera, scambiati per trafficanti appena scesi a terra. A pensarci, c’è già del materiale per una nuova storia.
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