La crisi umanitaria nel Corno d’Africa raccontata dalle donne che la vivono sulla loro pelle

L’organizzazione umanitaria Cesvi, che lavora da anni nel Corno d’Africa, ha raccolto testimonianze drammatiche sulla crisi in corso.

C’è un numero che nelle ultime settimane è rimbalzato tra giornali e social media, suscitando un senso di angoscia mista a impotenza: 13 milioni. Secondo il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Wfp), sono 13 milioni le persone che rischiano la fame grave nel Corno d’Africa, tra Kenya, Etiopia e Somalia. È l’effetto combinato dei conflitti, della pandemia e – ultima in ordine di tempo – di un’estenuante ondata di siccità che persiste da tre stagioni consecutive, mandando in crisi l’agricoltura e l’allevamento. Tutto questo in una regione che era già stata messa in ginocchio dalla carestia (l’Onu l’ha dichiarata in Somalia nel 2011) e dall’invasione delle locuste. Dietro i numeri, però, ci sono le storie. A raccoglierle è Cesvi, l’organizzazione umanitaria italiana che dal 2009 opera nella regione, attivando programmi per la salute materna e infantile, per la sicurezza alimentare, per l’igiene e l’accesso all’acqua potabile, a cui si sono aggiunti – più di recente – quelli legati alla Covid-19.

Siccità nel Corno d'Africa, Kenya, Cesvi
13 milioni di persone rischiano di soffrire la fame estrema nel Corno d’Africa © Roger Lo Guarro/Cesvi

Ima e l’alimento salvavita per il suo bambino

“Siamo abituate a convivere con la fame, fin da piccole. È qualcosa che ognuno di noi ha sperimentato. Ma una cosa è provarla sulla propria pelle, un’altra è non avere nulla da dare da mangiare a tuo figlio”. Sono le parole di Ima, una donna descritta come “energica e caparbia”. D’altra parte, ogni settimana cammina per circa due ore, con qualsiasi condizione atmosferica, per raggiungere il centro di salute materna e infantile di Burat, in Kenya. L’appuntamento a cui non manca mai è il controllo medico per il suo bambino di due anni, a cui è stata diagnosticata la malnutrizione grave acuta. La sua terapia salvavita si chiama plumpynut. È un super-alimento da 500 calorie per 92 grammi, facilissimo da mangiare perché non va cotto né diluito in acqua (che rischia di essere contaminata) e si conserva fuori dal frigorifero. Grazie alle cure del personale sanitario, ora il bambino di Ima non è più in pericolo di vita.

Così Cesvi lavora per la sicurezza alimentare nel Corno d’Africa

I programmi di salute materna e infantile sono la spina dorsale dell’attività di Cesvi, operativa sul territorio attraverso ambulatori e cliniche mobili. Lo racconta a LifeGate Isabella Garino che vive nel Corno d’Africa dal 2008 e ora ha il ruolo di capo missione in Kenya e Somalia. Oltre a erogare servizi sanitari e curare i casi di malnutrizione infantile, Cesvi conduce interventi mirati sulla sicurezza alimentare. “Lavoriamo insieme alle comunità di agricoltori e pastori per diversificare le loro fonti di sussistenza. L’allevamento del pollame, per esempio, è meno vulnerabile all’impatto dei cambiamenti climatici”, continua Garino.

Tra i progetti di Cesvi ce n’è anche uno che prende il nome di Sampak (Sustainable agro-ecological models for production in Asals of Kenya). È in collaborazione con la sede italiana e quella kenyota di ActionAid e con la ong locale Mid-P e vuole migliorare la sicurezza alimentare delle comunità agricole e pastorali nella zona nord-orientale del Kenya. Ciò significa, per esempio, insegnare alle persone ad allevare le galline, assicurandosi così uova e carne per sfamarsi.

La storia di Nawoi, anziana e sola

Tra i partecipanti al programma Sampak c’è anche Nawoi, un’anziana rimasta completamente sola dopo la morte del marito e di cinque figli. Sono rimasti tutti uccisi quando, durante le precedenti carestie che hanno colpito il Kenya, le comunità si sono scontrate l’una contro l’altra per rubarsi il bestiame. Quando gli operatori di Cesvi l’hanno incontrata, Nawoi era talmente debole da riuscire a malapena a parlare.

Abita a Nasuroi, un villaggio temporaneo (manyatta, nella lingua locale) in cui le case sono fatte di plastica, legno, fango e foglie. La qualità della vita degli abitanti è molto migliorata da quando è stato costruito un pozzo da cui possono attingere acqua pulita per dissetarsi e dare da bere agli animali. Anche l’acqua è al centro delle attività di Cesvi, con diverse modalità: “Ci occupiamo di igiene e accesso all’acqua potabile e, in questo periodo di siccità, distribuiamo acqua alle comunità più vulnerabili, remote e soggette a crisi protratte e shock improvvisi”, spiega da Nairobi Isabella Garino.

La campagna vaccinale procede a rilento nel Corno d’Africa

L’acqua è un presidio fondamentale anche contro il coronavirus, considerato che la più importante misura per evitare il contagio è il lavaggio frequente delle mani, alla pari dell’uso dei dispositivi di protezioni individuale. Cesvi è impegnato anche su questi fronti, oltre a cercare di sensibilizzare la popolazione sulla necessità di vaccinarsi.

Al momento, in Kenya soltanto il 13,7 per cento della popolazione ha completato il ciclo vaccinale. In Somalia la percentuale è ancora più bassa: il 5,5 per cento. “Questo è dovuto a un mix di fattori”, precisa Isabella Garino. “Nonostante entrambi i paesi facciano parte del programma Covax, le dosi ricevute sono scarse. Oltre a questo, un po’ per disinformazione, un po’ per superstizione e un po’ per la difficoltà di accedere ai centri vaccinali, tante persone sono restie all’idea di farsi vaccinare. Inoltre, in particolare in Somalia ma in anche nelle zone aride e semiaride rurali del Kenya, la vaccinazione viene percepita come una non priorità rispetto alla ricerca di acqua e cibo”.

Pandemia in Somalia
In luoghi come la Somalia la vaccinazione non viene ritenuta come una priorità, perché le persone si focalizzano sulla ricerca di cibo e acqua © Fulvio Zubiani/Cesvi

Le parole di Caroline: “Non era la vita che mi immaginavo”

La pandemia ha avuto anche un impatto dal punto di vista economico. Solo in Kenya, due milioni di persone sono scivolate al di sotto della soglia di povertà negli ultimi due anni. Molte hanno perso il lavoro, altre sono state costrette a rivedere radicalmente i loro programmi per il futuro. Tra di loro c’è Caroline, 22 anni, anche lei seguita dai medici presso il dispensario di salute materno infantile di Burat.

“Voglio dire che questa non era la vita che mi immaginavo, ma è quello che mi è toccato. Per questo ora voglio rimboccarmi le maniche e andare avanti con la mia vita. Vorrei tornare a scuola, come stavo già pianificando per studiare gestione d’impresa a Naivasha. Avevo già pagato la retta, poi è arrivata la Covid e hanno chiuso le scuole”, racconta. Quando è rimasta incinta è stata cacciata di casa due volte: prima dal padre della bambina, scappato a Nairobi da un giorno all’altro, sia dai suoi stessi genitori. Entrambe le famiglie si sono rifiutate di sfamare una bocca in più. Ora vive in strada e si sostenta grazie a piccoli lavori manuali, come intrecciare paglia e cucire. “Per noi è difficile anche avere del cibo da mangiare. Tutto quello che trovo lo do a lei, ma spesso rimaniamo senza cibo”, continua. Tant’è che la piccola, nonostante le terapie, è ancora sottopeso.

Le donne pagano in prima persona la crisi del Corno d’Africa

Non è un caso se le testimonianze raccolte da Cesvi sono al femminile. La crisi che sta attraversando il Corno d’Africa, dovuta a questo mix di fattori climatici, sociali, economici e sanitari, si abbatte sulle donne in modo molto più evidente. “Sono le donne e le bambine a dover camminare per chilometri per trovare acqua potabile, trovandosi così esposte alla violenza”, continua Isabella Garino. “Oppure ci sono bambine che vengono ritirate dalla scuola, o date in sposa da piccole perché la famiglia vuole togliersi una bocca da sfamare. Ci sono mamme in gravidanza o allattamento che cedono il loro cibo ai bambini o agli uomini”, conclude. “Nelle comunità pastorizie, quando l’uomo si muove alla ricerca di acqua e pascoli, chi resta indietro sono donne, bambini e anziani. Rimasti senza protezione, sono più vulnerabili agli attacchi e hanno meno cibo e risorse”.

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