Come l’innovazione ci aiuta a costruire un futuro sostenibile

Come l’innovazione ci aiuta a costruire un futuro sostenibile

L’Osservatorio sullo stile di vita sostenibile 2022 di LifeGate dimostra che la sostenibilità è parte dei valori e delle abitudini degli italiani. Un cambiamento a cui contribuisce anche l’innovazione.

Tempo di lettura: 19 min.

Cosa c’è di più elettrizzante di immaginare il futuro? O – ancora meglio – di rimboccarsi le maniche per cambiarlo in meglio, questo futuro, sfoderando ingegno e competenze, creatività e visione?

L’innovazione è ciò che ci ha portato fin qui. Nel bene, perché godiamo di opportunità che sarebbero state impensabili anche solo per i nostri genitori e i nostri nonni; e nel male, perché spesso è stato il pianeta a pagare il prezzo dei privilegi conquistati da una ridottissima nicchia della popolazione. Quando si è fatta avanti l’esigenza di rendere più sostenibile il nostro modello di sviluppo, si è dato per scontato che ciò significasse inevitabilmente tornare indietro. Se le tecnologie industriali hanno depredato le risorse della natura oltre ogni limite, si pensava, allora dovremo ricominciare a fare le cose in modo più basico.

Questo sillogismo, però, sta in piedi solo se riteniamo che l’innovazione si sovrapponga in tutto e per tutto alla tecnologia. Ma l’innovazione è qualcosa di più vasto. È prima di tutto un’attitudine. Perché serve innanzitutto la mentalità giusta, per saper rispondere in modo responsabile ai bisogni di una società che vive un’incessante evoluzione. La tecnologia altro non è che uno strumento al servizio del cambiamento. È così che si spiega quel connubio virtuoso che vede aziende, startup e università sempre più compatte nella missione di rendere più sostenibile il nostro modo di nutrirci, spostarci, ricavare energia, vestirci, investire il nostro denaro. Insomma, il nostro stile di vita a tutto tondo.


Scarica la ricerca dell'8° Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile:

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L’Osservatorio sullo stile di vita sostenibile di LifeGate

LifeGate ha iniziato nel 2015 a interrogare gli italiani su quanto la sostenibilità permeasse il loro stile di vita, attraverso il primo Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile. All’epoca questo era ancora un tema di nicchia, tant’è che solo il 43 per cento dei nostri connazionali si sentiva coinvolto. Nel 2015, con l’Esposizione universale di Milano, la consapevolezza ha fatto passi da gigante (dal 43 al 62 per cento nell’arco di un anno) e, da allora, non si è più affievolita nemmeno nel periodo più buio della pandemia. Anzi, nel 2021 tre italiani su quattro si sentivano appassionati o interessati alle questioni di sostenibilità.

Quest’anno l’Osservatorio cambia forma. La metodologia, anche per ottenere risultati comparabili rispetto alle edizioni precedenti, resta sempre la stessa: un’indagine sottoposta a un campione rappresentativo di ottocento cittadini italiani maggiorenni, in collaborazione con l’istituto di ricerca Eumetra MR. Un sovra-campionamento permette di fare un focus sulla popolazione di Milano e di Roma, rispettivamente per la sesta e per la terza volta. Nel campione c’è anche una rappresentanza di under 25, cioè della cosiddetta generazione Z, anche ribattezzata “generazione Greta” per il tenace impegno ambientalista dimostrato anche (ma non solo) dagli scioperi per il clima.

Il concept, in compenso, è tutto nuovo. Le opinioni degli italiani, arricchite per includere i temi caldi dell’attualità, diventano una chiave di lettura per raccontare l’intreccio tra innovazione e sostenibilità. Alla presentazione di martedì 11 ottobre 2022 la glass house di villa Necchi Campiglio, magnifica dimora storica nel cuore di Milano, è il palcoscenico per dare voce a persone e aziende che stanno innovando servizi, prodotti e processi, al fine di alleggerire il proprio impatto ambientale e contribuire positivamente al benessere della società. L’evento fa parte del fitto programma del Festival dello sviluppo sostenibile 2022, la più grande e partecipata iniziativa in Italia per sensibilizzare e mobilitare i cittadini sui temi dell’Agenda 2030, promossa dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis).

Il progetto è in collaborazione con Eumetra MR ed è patrocinato da Commissione europea, Parlamento europeo, ministero della Transizione ecologica, regione Lombardia, comune di Milano, Assolombarda, Confcommercio e Connect4Climate. L’Osservatorio è stato realizzato con il supporto di Erion, Firriato, Icam, Gruppo Unipol e Vaillant Italia.

L’innovazione per LifeGate è da sempre la chiave per costruire un futuro sostenibile per l’intera umanità. Queste due parole, sostenibilità e innovazione, non possono essere scisse.

Enea Roveda, amministratore delegato Gruppo LifeGate

Il primo dato degno di nota sta nel fatto che, nonostante le tante preoccupazioni che hanno caratterizzato gli ultimi due anni, tra pandemia, guerra in Ucraina e crisi energetica, gli italiani continuano a credere nella sostenibilità. Per 31 milioni di nostri connazionali è un tema sentito, solo il 28 per cento la ritiene una moda passeggera. Anche il tasso di coinvolgimento è stabile rispetto allo scorso anno, con un 73 per cento che equivale a 36,5 milioni di persone, soprattutto giovani della generazione Z, donne, studenti, laureati e individui professionalmente attivi. L’attitudine degli abitanti delle grandi metropoli non si discosta da questa media, con il 75 per cento di Milano e il 78 per cento di Roma.

Anche gli italiani toccano con mano l’impatto della crisi climatica

Quando i cittadini hanno risposto alle domande dell’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile era giugno, e tutt’Europa – Italia compresa – era da settimane nella morsa di un’ondata di caldo persistente e insolitamente precoce. Nel mese successivo, luglio, la temperatura media registrata nel Belpaese avrebbe superato di ben 2,26 gradi centigradi quella del periodo 1991-2020. Nel frattempo, la peggiore siccità degli ultimi 500 anni mandava in fumo il 10 per cento della produzione agroalimentare nazionale, con danni economici stimati da Coldiretti in 6 miliardi di dollari.

Quando erano in corso gli ultimi preparativi per l’evento di presentazione dell’11 ottobre, sui social media rimbalzavano le immagini degli eventi meteo estremi che si susseguivano con cadenza quasi quotidiana. Come i nubifragi e le trombe d’aria che hanno travolto diverse regioni italiane già da metà agosto. O la forte alluvione che ha colpito l’entroterra marchigiano nella notte tra il 15 e il 16 settembre, lasciando un bilancio di dieci morti. Eventi che sono stati troppi, e troppo intensi, per poter essere liquidati come comuni episodi di maltempo.

Non c’è dunque da stupirsi se il 78 per cento degli italiani sa descrivere cos’è il riscaldamento globale e il 69 per cento sa cosa si intende per crisi climatica; un’espressione, quest’ultima, che è più nota tra i giovanissimi e i cittadini di Roma e Milano (con percentuali rispettivamente del 74, 80 e 78 per cento). L’85 per cento ritiene che si debba sostenere la lotta contro i cambiamenti climatici con il proprio comportamento. Cosa significa? Significa adottare le buone pratiche sostenibili descritte nell’indagine, perché tutte, in un modo o nell’altro, aiutano ad alleggerire la propria carbon footprint. Ma significa anche fare a patti con la realtà: la crisi climatica è in corso, e siamo costretti ad attrezzarci di conseguenza. Per esempio ristrutturando la nostra casa per migliorarne l’isolamento termico. Oppure stipulando una polizza assicurativa per i danni dovuti a bombe d’acqua e alluvioni: circa due italiani su dieci sarebbero disposti a farlo.

Per le compagnie assicurative sarà una sfida: quella di essere chiari nel comunicare i rischi e i benefici. L’altro grande impegno è quello di proporre anche un focus sulla prevenzione, facendo comprendere quali sono le azioni che possono essere messe in atto per ridurre il rischio.

Giulia Balugani, sustainability manager UnipolSai Assicurazioni

Transizione energetica, il cambio di passo non è mai stato così urgente

È inevitabile che l’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile affronti diffusamente il tema dell’energia, considerato che tale settore è responsabile del 34 per cento delle emissioni di gas serra di origine antropica. Rispetto alle precedenti edizioni della ricerca, però, stavolta c’è una macroscopica novità. A giugno, quando gli italiani hanno risposto alle domande poste da Eumetra MR, il dibattito sull’energia non era più relegato nelle testate specializzate: era sulle prime pagine dei giornali, nei titoli di apertura dei TG, nei meme condivisi sui social media.

Il motivo lo conosciamo, ed è drammatico. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha compromesso l’approvvigionamento di gas naturale, facendone schizzare verso l’alto il prezzo. Nel secondo trimestre del 2022, il prezzo di un metro cubo di gas a uso domestico nel mercato tutelato era pari a 123 centesimi, quasi il doppio rispetto a due anni prima. Nel trimestre successivo è rimasto bloccato, ma solo per gli interventi del governo. L’impatto sulle tasche delle famiglie è facile da immaginare. E va ancora peggio a imprese ed esercizi commerciali che, in alcuni casi, rischiano seriamente di dover chiudere i battenti.

In Italia ci sono ancora 12 milioni di caldaie tradizionali che consumano e sono molto dispendiose. Sostituendole con caldaie a compensazione, potremmo ridurre i consumi del 30 per cento.

Gherardo Magri, amministratore delegato Vaillant Group Italia

Come rispondere a questa emergenza? Quasi un italiano su due (il 46 per cento) resta convinto della necessità di accelerare sulle energie rinnovabili per diventare indipendenti a livello energetico. Uno su quattro – con un picco di uno su tre nella generazione Z – sarebbe disposto a siglare un contratto con un fornitore di energia verde, anche pagando un po’ di più. Solo due nostri concittadini su dieci, tuttavia, si dicono disposti a fare sacrifici in prima persona per ridurre i consumi, magari abbassando di un grado il termostato d’inverno o tenendo i fornelli accesi solo il minimo indispensabile. Piccoli accorgimenti che ci vengono chiesti a gran voce da tempo e, quest’inverno, diventeranno scelte obbligate.

Molto più flebile il consenso verso quelle misure che negli ultimi mesi hanno riempito le pagine dei giornali e i programmi elettorali: soltanto l’11 per cento degli italiani spera nel ritorno al nucleare e il 7 per cento auspica che l’Italia riesca a diversificare l’approvvigionamento di gas naturale, per svincolarsi dalla dipendenza dalla Russia.

Uno stile di vita più sostenibile fa stare bene

Sappiamo che la pandemia da coronavirus ha avuto profonde ripercussioni su salute, lavoro, economia, rapporti sociali e vita di tutti i giorni. Salute e benessere sono saliti in cima alla lista delle priorità dei cittadini e, in particolar modo in questo periodo post emergenziale, sembra che le persone siano pronte ad abbracciare nuovi stili di vita più sani e responsabili, in maniera consapevole e autonoma.

Prima durante il lockdown e con lo smart working dopo, il tempo trascorso in casa e dedicato ad attività sedentarie è aumentato notevolmente, così come quello passato a cucinare. Ed ecco che la reazione non si è fatta attendere. Da un lato, è cresciuta la consapevolezza di quanto l’alimentazione influisca sul nostro organismo, con il 69 per cento degli italiani che cerca di mangiare in modo più sano ed equilibrato rispetto al periodo antecedente l’emergenza sanitaria. Dall’altro lato, molti hanno deciso di cimentarsi con l’attività motoria. Secondo una ricerca condotta nel 2021 da Associazioni sportive sociali italiane (Asi) in collaborazione con Swg, il 16 per cento degli italiani ha iniziato un nuovo sport proprio al termine del primo anno di emergenza sanitaria. Una tendenza confermata dalla ricerca di LifeGate, con più della metà degli intervistati (il 57 per cento) che dichiara di svolgere più attività fisica all’aperto rispetto a due anni fa. Il 44 per cento si sposta più spesso in bici, percentuale che sale tra i giovanissimi della generazione Z (50 per cento). I milanesi, in particolare modo, cercano di usare il meno possibile l’automobile (il 64 per cento, contro un dato nazionale del 56 per cento).

In generale, l’Osservatorio fotografa il forte legame che esiste tra l’idea di sostenibilità e quella di benessere: il 30 per cento degli italiani, infatti, afferma di scegliere uno stile di vita sostenibile come forma di tutela per la propria salute.

Più biologico, meno carne: mangiare è un atto di consapevolezza

Lo abbiamo anticipato: la pandemia di Covid-19 ha influenzato in modo profondo la nostra dieta e il nostro modo di relazionarci al cibo, con una crescente attenzione verso la salute e il benessere. Ma c’è un altro ottimo motivo per riflettere sul cibo che si mette in tavola, ed è l’ambiente. Grazie agli studi del Rodale Institute sappiamo che l’agricoltura biologica consuma il 45 per cento di energia in meno rispetto a quella convenzionale e produce il 40 per cento in meno di gas serra. Tant’è che basterebbe convertire a biologico il 20 per cento dei campi d’Europa per evitare di emettere in atmosfera 92 milioni di tonnellate di CO2, più di quelle che genera ogni anno una nazione come l’Austria. Fare a meno di pesticidi e fertilizzanti di sintesi è anche un toccasana per la biodiversità, e lo dimostra il fatto che quest’ultima aumenti del 30 per cento nelle coltivazioni biologiche, se paragonate a quelle convenzionali.

Il consumatore medio del mondo del vino sta diventando sempre più preparato sul prodotto che acquista. Il modo in cui la cantina rispetta la sostenibilità ambientale diventerà sempre di più un parametro di scelta fondamentale.

Federico Lombardo di Monte Iato, Chief operating officer, Firriato

Ma quanti sono gli italiani che scelgono il biologico? Secondo i dati diffusi da Assobio in collaborazione con Nielsen, nel marzo 2020 – in pieno lockdown – le vendite di prodotti biologici sono aumentate del 19,6 per cento nella grande distribuzione, con picchi del 28,8 per cento nei negozi specializzati. Il trend di crescita è proseguito anche negli anni successivi: secondo il recente Osservatorio Sana, nel 2022 le vendite al dettaglio di alimenti bio hanno raggiunto 5 miliardi di euro in Italia e rappresentano quindi una fetta del 3,5 per cento sul totale globale.

Anche l’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile fotografa quanto il biologico faccia ormai parte delle nostre scelte alimentari: se recenti dati Nomisma ci dicono che l’89 per cento delle famiglie italiane ha acquistato bio almeno una volta durante il 2022, secondo la ricerca LifeGate gli italiani che ne hanno fatto il pilastro della propria spesa sono il 12 per cento, percentuale che aumenta fino al 19 per cento quando parliamo della generazione Z. Una convinzione così forte che l’84 per cento degli intervistati ha dichiarato il suo pieno sostegno all’agricoltura biologica e il 24 per cento ritiene che l’aumento della produzione di cibo biologico sia una priorità per il paese.

Questa è una scelta che sta alla base di un’alimentazione consapevole, ma non è la sola. Ormai è impossibile chiudere gli occhi di fronte all’immenso impatto di carne e derivati, sia in termini di emissioni di CO2 sia in termini di impronta idrica. Se l’Osservatorio evidenzia che vegetariani e vegani sono ancora una minoranza (il 4 per cento degli italiani), c’è un altro 22 per cento che si sforza di consumare meno carne. Una percentuale che sale fino al 29 per cento nella città di Milano.

Moda e design: le tecnologie ci sono, la cultura va costruita

Quando si interpellano le persone su argomenti che toccano da vicino le loro abitudini (e il loro portafoglio), è comune cogliere una certa distanza tra ciò che ritengono giusto e ciò che realmente fanno. Se si parla di moda e design, questo divario si vede a occhio nudo.

Otto italiani su dieci ritengono che l’arredamento e l’abbigliamento possano essere sostenibili; la metà di loro (poco più di quattro su dieci, con picchi a Milano, Roma e tra i giovani) sa spiegare il significato di queste espressioni; la metà della metà (circa due su dieci) è disposta a spendere un po’ di più per fare acquisti sostenibili. Ma quanti hanno davvero nel loro armadio capi d’abbigliamento a basso impatto ambientale, riciclati o provenienti da una filiera etica? Ancora meno, uno su dieci. La metà della metà della metà. E per fortuna che i giovanissimi alzano la media: due su dieci acquistano abiti sostenibili.

Eppure in questo campo l’innovazione è più vivace che mai, tra seta vegana, tessuti fatti con il pastazzo di agrumi o resi impermeabili dalla polvere di marmo, sartorie ecosolidali, app che suggeriscono come abbinare i vestiti per evitare di comprarne di nuovi. Sta vivendo un momento d’oro anche il second hand: l’immaginario un po’ triste del mercatino delle pulci appartiene al passato, visto che oggi basta uno smartphone per aggiudicarsi una borsa griffata o un’icona di design usata. Risparmiando parecchio rispetto al prezzo di listino e, soprattutto, allungandone la vita. È un canale democratico per circondarsi di oggetti di qualità, allontanandosi dalla logica dell’usa e getta che tanto male ha fatto alle risorse del pianeta e ai lavoratori della filiera.

Se le opportunità sono così varie, dunque, perché i dati sul consumo risultano ancora un po’ deludenti? Difficile dare una risposta certa. Un po’ è una questione culturale, perché bisogna re-imparare a dare il giusto valore a prodotti che per anni hanno inondato il mercato a prezzi stracciati. Un po’, magari, gli italiani hanno bisogno di aiuto per capire quali brand e marketplace meritano la loro fiducia. Anche qui la tecnologia può aiutare, registrando le informazioni in blockchain e rendendole fruibili attraverso un semplice QR code. 

In un mondo di risorse scarse, l’economia circolare è una scelta obbligata

Al centro dell’agenda internazionale degli ultimi mesi c’è l’aumento del costo delle materie prime, non solo a causa dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia di Covid-19 e dell’incerta situazione geopolitica internazionale, ma sempre di più anche per le condizioni meteorologiche estreme che compromettono la normale produzione e il regolare approvvigionamento. Secondo un recente rapporto pubblicato dallo Stockholm environment institute, ci aspettano decenni di estrema incertezza legata sempre di più ai cambiamenti climatici.

Da queste premesse risulta chiaro come ci sia sempre più bisogno di economia circolare, cioè di un sistema produttivo che riduca a mondo il fabbisogno di risorse della natura necessarie per produrre un oggetto: oggetto che deve durare il più a lungo possibile attraverso il riuso, il riciclo, la riparazione o il ricondizionamento, per poi essere riciclato a fine vita.

In ambito recupero e riutilizzo, l’Italia si distingue: nel 2022 la quota di riciclo complessiva è stata del 68 per cento contro una media europea del 35 per cento e il tasso di uso circolare di materia è stato del 21,6 per cento contro una media europea del 12,8 per cento. Il nostro paese si è posizionato al primo posto assieme alla Francia nella classifica delle cinque principali economie circolari europee, prima di Spagna, Polonia e Germania (fonte: Rapporto sull’economia circolare in Italia edizione 2022).

Ma qual è il livello di conoscenza e l’atteggiamento degli italiani nei confronti di queste tematiche? Secondo l’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile, il 37 per cento degli italiani sa che cos’è l’economia circolare, con picchi del 50 per cento a Milano, e per l’80 per cento è importante considerarne gli aspetti sin dalla progettazione di un prodotto. La generazione Z è prontissima ad acquistare oggetti fatti con materie prime riciclate, anche a costo di spendere un po’ di più: è quanto dichiara il 31 per cento degli intervistati, dieci punti percentuali in più rispetto alla popolazione generale.

Particolarmente delicato è lo smaltimento dei Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee), dai quali si possono ricavare fino a 15,6 tonnellate di materie prime critiche all’anno. Si tratta di materiali come palladio, rodio, platino e alluminio primario, materiali che ad oggi l’Italia è costretta a importare in larghissima quantità, sborsando 5,2 miliardi di euro l’anno. Solo nel 2021, Erion Weee (il principale sistema collettivo no-profit di responsabilità estesa del produttore per la gestione dei Raee in Italia) è riuscito a riciclare 238mila tonnellate di materie prime seconde, risparmiando 404 milioni di kWh di energia ed evitando emissioni pari a 1,8 milioni di tonnellate di CO2 equivalente.

Mentre nell’economia lineare noi consumatori acquistiamo i prodotti e poi li buttiamo via, l’economia circolare richiede un coinvolgimento molto più forte da parte dei cittadini perché partecipano alla possibilità di rimettere in circolazione il prodotto usato e il rifiuto.

Danilo Bonato, direttore generale di Erion Compliance Organization

E si potrebbe fare ancora di più, se ogni singolo elettrodomestico, smartphone e computer venisse correttamente smaltito. Dall’Osservatorio si scopre che il 71 per cento degli italiani dichiara di fare la raccolta differenziata di questi rifiuti, percentuale che sale a Milano (78 per cento) ma si abbassa al 50 per cento tra i ragazzi della generazione Z che forse, per motivi anagrafici, non hanno quest’incarico in casa.

Nella città del futuro la mobilità è smart, efficiente e meno inquinante

Secondo le Nazioni Unite, il 55 per cento della popolazione mondiale abita in città ed entro il 2045 si arriverà a due persone su tre. È evidente che le città in futuro avranno bisogno di soluzioni efficaci per sostenere la propria crescita e migliorare la qualità della vita dei residenti. La parola chiave è smart. Il 21 per cento degli intervistati dell’Osservatorio LifeGate ha già sentito parlare di smart city, con un picco del 38 per cento a Milano, ma cosa si intende? Nelle città intelligenti, tutto è volto a preservare il capitale umano e migliorare la qualità della vita proprio grazie all’innovazione che agisce su diversi fronti: dalla pianificazione delle infrastrutture all’efficientamento energetico, dalla comunicazione alla mobilità.

Proprio la mobilità sostenibile è una delle priorità fondamentali per una smart city: l’obiettivo è quello di snellire il traffico e ottimizzare il trasporto, rendendolo accessibile, economico e il più green possibile. In alcune città italiane la smart mobility è già una realtà – per esempio, due milanesi su tre sanno di cosa si tratta – e in altre meno, ma per il 52 per cento degli italiani è un concetto familiare.

Tra le diverse soluzioni possibili, l’auto elettrica suscita particolare interesse: per il 78 per certo degli intervistati bisognerebbe incentivarne l’acquisto. Di contro, gli italiani che già ne fanno uso sono solo il 7 per cento, percentuale che si alza considerevolmente nella generazione Z, con un picco del 17 per cento.

E dopo il 2035, quando in tutta l’Unione europea sarà vietata la vendita di nuove auto a benzina, Gpl, metano e diesel? Un italiano su tre teme che le case automobilistiche si trovino in difficoltà e quindi aumentino i prezzi. L’auto di proprietà, però, resta un bene a cui una ridotta minoranza è disposta a rinunciare: solo un intervistato su dieci prevede che gli acquisti di auto diminuiranno e ci si affiderà, per esempio, al car sharing.

È il momento della finanza sostenibile

Nel 2015, all’interno della prima edizione dell’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile di LifeGate, la parola “finanza” non compariva. In realtà, fin dagli anni Settanta i primissimi investitori (soprattutto religiosi) avevano iniziato a comparire alle assemblee degli azionisti dei grandi gruppi per presentare mozioni su temi etici e sociali, inaugurando il filone dell’azionariato attivo. E nel 2015 esistevano già anche gli strumenti per raccogliere capitali per progetti verdi (i green bond) e per fare investimenti basati sui criteri ambientali, sociali e di governance (Esg). All’epoca, però, l’argomento era ancora troppo di nicchia: sarebbe stato inutile interpellare la popolazione, composta per la stragrande maggioranza da non addetti ai lavori.

Sono passati sette anni e il 37 per cento degli italiani sa descrivere cosa sono gli investimenti sostenibili, una percentuale che sale visibilmente a Milano (45 per cento) e tra i giovanissimi della generazione Z (50 per cento). Il 91 per cento degli italiani li preferirebbe agli investimenti tradizionali, se fosse garantita la parità di rendimento; e un buon 65 per cento sarebbe anche disposto a guadagnare un po’ meno. Il 12 per cento non si limita a conoscere questo tema sulla carta o a dichiararsi favorevole a parole, ma ha anche investito parte dei suoi risparmi seguendo criteri di sostenibilità. Nel frattempo, banche, pensioni e fondi di assicurazione sono presenze fisse ai summit sul clima: una delle ultime in ordine di tempo è la Cop26 di Glasgow, in cui hanno promesso di allineare 130mila miliardi di dollari all’obiettivo zero emissioni.

Missione compiuta, dunque? Finalmente la finanza ha indirizzato in modo compatto i suoi capitali verso la transizione energetica e, più in generale, le attività compatibili con il nostro futuro? Purtroppo le cose non sono così semplici. Ce l’ha dimostrato l’anno appena trascorso, con le furiose polemiche sulla tassonomia europea che definisce quali attività economiche possono essere ritenute “verdi” – e, alla fine, ha incluso anche nucleare e gas – e la Securities and exchange commission (l’equivalente a stelle e strisce della nostra Consob) che promette la linea dura contro quei fondi che millantano doti Esg, traendo in inganno i risparmiatori. Insomma, di nodi da sbrogliare ce ne sono parecchi. Ma il momento è arrivato.

La sostenibilità cambia il modo di fare impresa

La transizione sostenibile auspicata da così tanti italiani diventa realizzabile solo a una condizione: che ci siano aziende disposte a investire per innovare i prodotti e innovarsi nei processi. Per alcune di loro lo stravolgimento sarà radicale; un esempio sono le case automobilistiche, chiamate ad abbracciare il paradigma dell’elettrico. E devono fare in fretta, perché la tabella di marcia è serrata.

Sembrano passati secoli da quando le imprese che parlavano apertamente di sostenibilità apparivano come alternative, visionarie, fuori dagli schemi. Oggi non possono farne a meno. Lo dimostra il fatto che gli obiettivi ambientali e sociali siano dichiarati a chiare lettere nei siti web, nelle pubblicità, nei discorsi degli amministratori delegati.

Ma i loro sono impegni concreti per assicurare un futuro al pianeta, oppure puri e semplici stratagemmi di marketing per agganciarsi ai trend di mercato? Di fronte a questa domanda, il pubblico si spacca a metà. Dimostrando quanto i consumatori siano ormai parecchio smaliziati. Quando scelgono i prodotti da mettere nel carrello, in casa o nel guardaroba, vanno alla ricerca di informazioni trasparenti (35 per cento), garanzie sul controllo della filiera (31 per cento), loghi e certificazioni (23 per cento) e informazioni sulla compensazione delle emissioni (15 per cento). Pochi, circa il 10 per cento, prendono in considerazione lo strumento principe per la rendicontazione delle performance ambientali, sociali e di governance, cioè il report di sostenibilità. Ancora meno, il 3 per cento, lo status di società benefit o di B Corp.

Di fronte a un cambiamento tanto epocale, non c’è più spazio per le parole vuote di significato o le operazioni di facciata; in una parola, per il greenwashing. Anzi, andare alla ricerca di scorciatoie è controproducente, se non altro perché i clienti rischiano di accorgersene e di condannarle senza appello. La strada da seguire è un’altra: è quella dell’innovazione sostenibile. È più dispendiosa, delicata, talvolta tortuosa, ma è l’unica che ci permette di affrontare le grandi sfide del presente.