Il vero costo per la nostra salute di un comune hamburger: è la Meatonomics

Tenendo conto dei costi ambientali e sanitari che impone a tutti noi, un hamburger non costerebbe 4 dollari, ma quasi il triplo. È la tesi di Meatonomics.

Quando si parla dell’opportunità di evitare o ridurre il consumo di carne, “tradizionalmente il dibattito si incentra su tre temi: salute, etica e ambiente. Il mio intento è quello di introdurre una quarta prospettiva, quella dell’economia”. In un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Guardian, David Robinson Simon riassume così il percorso che l’ha portato a dedicarsi all’economia degli allevamenti, coniando il termine Meatonomics.

Un Big Mac da 11 dollari

Gli studi di Meatonomics sono incentrati sugli Stati Uniti, dove il consumo di carne è particolarmente radicato. Le stime sono varie, ma concordano sul fatto che all’incirca il 5 per cento della popolazione si definisca vegana, vegetariana o pescetariana. Una percentuale inferiore rispetto ad esempio a quella dell’Italia, dove (secondo l’Eurispes) i vegetariani sono poco più del 7 per cento della popolazione e un altro 1 per cento si dichiara vegano; cifre destinate ad aumentare, visto che ad abbandonare la carne sono soprattutto i millennials.

Qui entra in gioco la tesi fondante di Meatonomics. L’attaccamento degli americani alla carne sarebbe anche la conseguenza di un sistema normativo e fiscale che permette ai colossi dell’allevamento intensivo di velocizzare i ritmi di produzione e, al contempo, tenere i prezzi artificialmente bassi. Se l’industria fosse obbligata a coprire tutti i costi reali – invece di scaricarli sui contribuenti, sugli animali e sull’ambiente -, un Big Mac, da 4 dollari, arriverebbe a costarne circa 11. Facendo la somma delle esternalità negative dovute al sistema alimentare statunitense, secondo Simon si arriva a 414 miliardi di dollari l’anno. 50 miliardi in meno rispetto al pil del Belgio. I tre quarti di questa cifra stratosferica corrispondono alle spese sanitarie dovute a obesità, diabete e disturbi cardiaci, patologie in cui influisce anche l’eccessivo consumo di carne rossa.

La carne potrebbe fare la fine del tabacco

Queste considerazioni spingono Simon ad azzardare una previsione: nei prossimi decenni, il percorso della carne potrebbe ricordare molto quello del tabacco. A metà degli anni Sessanta, quando i danni del fumo iniziavano a essere riconosciuti ufficialmente, si dichiaravano fumatori 42 adulti statunitensi su 100. Dopo le legislazioni sempre più severe, l’introduzione dei divieti di fumo, le avvertenze stampate in bella vista sui pacchetti e lo stop ai sussidi ai produttori di tabacco, questa percentuale è crollata fino al 15 per cento.

Non è da escludere che un giorno i governi decidano di tassare la carne, in virtù dei costi che impone sull’ambiente e sul sistema sanitario. Per ora sembra fantascienza, ma un gruppo di ricerca dell’università di Oxford ha già iniziato a lavorare su un’ipotetica climate tax, fino a stabilirne addirittura l’aliquota. Un 40 per cento sul manzo e un 20 per cento sul latte sarebbero il prezzo da pagare per compensare l’impatto della loro produzione sui cambiamenti climatici.

Investitori critici verso gli allevamenti intensivi

Per ora, dicevamo, stiamo parlando di stime e ipotesi. Ma qualcosa di concreto già si muove. Diversi investitori, che di giorno in giorno maneggiano miliardi di dollari, iniziano a guardare con una certa diffidenza il mondo degli allevamenti intensivi. Secondo un rapporto di Farm animal investment risk & return (Fairr), ci sono almeno 28 considerazioni di natura ambientale, sociale e di governance (Esg) che potrebbero avere effetti negativi sulla performance finanziaria di queste aziende e sui profitti dei loro investitori. Tra queste si può citare l’incidenza delle malattie degli animali, che ogni anno causano la perdita di almeno il 20 per cento della produzione animale mondiale, per un costo che (secondo l’Organizzazione mondiale della sanità animale) si aggira sui 300 miliardi di dollari. Una delle principali minacce per la salute umana, ovvero l’uso degli antibiotici negli allevamenti, inizia a guadagnare sempre più spazio nei paper pubblicati dai colossi della finanza. Alcuni di essi sono pronti ad attivarsi per convincere le aziende ad abbandonare questa criticatissima pratica; in caso contrario, potrebbero disfarsi dei loro titoli.

Maiali al macello
Allevamento di suini © Carsten Koall/Getty Images

Meatonomics e il suo autore, David Robinson Simon

Meatonomics è un libro pubblicato nel 2013, diventato anche un blog. L’autore è un avvocato di Los Angeles, David Robinson Simon, che lavora per una società del settore della salute ed è membro del board di APRL Fund, un’organizzazione no profit dedicata alla protezione degli animali. David Robinson Simon è finito sotto i riflettori anche per la sua partecipazione a Cowspiracy, il documentario sull’impatto degli allevamenti intensivi prodotto da Leonardo DiCaprio. Come spiega in quest’intervista rilasciata al quotidiano britannico The Guardian, è vegano ormai da dieci anni: la svolta, racconta, è arrivata dalla visione del documentario “I am an animal” che parla della vita di Ingrid Newkirk, che ha fondato l’associazione animalista Peta.

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