Brasile. Per il futuro ministro degli Esteri, i cambiamenti climatici sono un complotto a favore della Cina

I cambiamenti climatici? Sono una trama volta a soffocare le economie occidentali. Parola di Ernesto Araújo, scelto da Bolsonaro come ministro degli Esteri.

Che l’ambiente non fosse al primo posto nella lista di priorità del futuro governo del Brasile, in fin dei conti, era chiaro da subito. Ma alcune prese di posizione superano ogni immaginazione. Come quelle di Ernesto Araújo, scelto come futuro ministro degli Esteri dal presidente eletto Jair Bolsonaro. Una persona che, tra le altre cose, definisce i cambiamenti climatici come parte di un complotto ordito da “marxisti culturali” per soffocare le economie occidentali e favorire la crescita della Cina.

Di fronte alla comunità internazionale sarà lui, da gennaio in avanti, il volto ufficiale della più grande democrazia del Sudamerica, patria di un inestimabile scrigno di biodiversità come l’Amazzonia.

Chi è Ernesto Araújo, il futuro ministro degli Esteri brasiliano

Mercoledì 14 novembre è stato ufficializzato l’ingresso nella squadra di governo di Ernesto Henrique Fraga Araújo, che a partire da gennaio raccoglierà il testimone di Aloysio Nunes Ferreira. Cinquantunenne, Araújo nell’ultimo biennio è stato a capo del dipartimento del segretariato di Stato che si occupa delle relazioni con Stati Uniti, Canada e altri paesi del Continente.

La sua carriera diplomatica, di per sé, non desta scalpore e non era particolarmente nota al di fuori degli ambienti governativi. Il quotidiano Guardian però è risalito al suo blog, Metapolítica 17, a cui quasi ogni giorno Araújo affida le sue considerazioni politiche. Il suo nemico giurato è l’ideologia globalista. “Il globalismo è la globalizzazione economica che ha iniziato a essere pilotata dal marxismo culturale – scrive –. Essenzialmente, è un sistema anti-umano e anti-cristiano. Avere fede in Cristo oggi significa combattere contro il globalismo, il cui scopo ultimo è quello di rompere il legame tra Dio e l’uomo, rendendo schiavo l’uomo e irrilevante Dio”.

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Jair Bolsonaro è il nuovo presidente del Brasile © Ricardo Moraes-Pool/Getty Images

A rappresentare il Brasile, un negazionista dei cambiamenti climatici

Indipendentemente dalle sue posizioni religiose e politiche, espresse a titolo personale, ha attirato l’attenzione il suo post dedicato ai cambiamenti climatici.

Dopo un esordio neutro (“Chi potrebbe essere contrario alla tutela della natura e all’utilizzo responsabile delle sue risorse?”), già nel primo paragrafo Araújo mette in dubbio la correlazione tra l’aumento delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera e l’incremento delle temperature medie globali. A detta sua, questa teoria sarebbe diventata un dogma, oscurando sistematicamente tutti gli studi di orientamento opposto.

“Questo dogma è servito a giustificare l’incremento del potere regolatorio degli Stati nei confronti dell’economia e del potere delle istituzioni internazionali nei confronti degli Stati nazionali e dei loro popoli”. Non solo: secondo lui, gli studi sui cambiamenti climatici sono diventati un’arma per “soffocare la crescita economica dei paesi democratici capitalisti e, per contro, favorire lo sviluppo della Cina”.

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Parole che quasi ricalcano quelle di Donald Trump. Non a caso, a detta Araújo, soltanto il presidente degli Stati Uniti si sarebbe impegnato a contrastare questo processo di egemonia culturale ed economica, già in corso.

Una pericolosa marcia indietro sulla tutela dell’ambiente

Le posizioni del neo-ministro Araújo si sposano alla perfezione con quelle di chi l’ha scelto, Jair Bolsonaro, che ha trionfato alle elezioni in Brasile con il 46 per cento dei voti al primo turno e il 55 per cento al ballottaggio. Nel governo di Bolsonaro, che entrerà in carica da gennaio, il ministero per l’Ambiente non ci sarà, perché verrà accorpato con quello dell’agricoltura. Il che già fa presagire che gli interessi dei popoli indigeni e della biodiversità saranno posti in secondo piano rispetto a quelli dell’agroindustria.

Si interrompe così, sottolinea il Guardian, un percorso positivo che perdurava da un quarto di secolo. Nel 1992, infatti, proprio Rio de Janeiro aveva ospitato il Summit della Terra, la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente. 23 anni dopo, l’intercessione dei diplomatici brasiliani era riuscita a creare un ponte tra le economie avanzate e i paesi in via di sviluppo, dando un contributo fondamentale al successo dell’Accordo di Parigi sul clima.

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La nuova linea è completamente diversa. E probabilmente le ripercussioni non tarderanno troppo a manifestarsi. Già in questo momento, la foresta amazzonica torna a dare segnali d’allarme: a settembre 2018 ne sono stati rasi al suolo 444 chilometri quadrati, l’84 per cento in più rispetto allo stesso mese del 2017. Lo affermano le rilevazioni della ong Imazon, confermate da quelle ufficiali del governo.

Certamente la causa di questi dati non è imputabile all’amministrazione di Bolsonaro, visto che le elezioni si sono tenute il mese successivo. Ma questa notizia basta a dare una misura di quanto, nel territorio, le emergenze ambientali siano tutt’altro che risolte. Se il Brasile perderà questo treno, le conseguenze rischiano di essere irrimediabili.

 

Foto in apertura © Valter Campanato/Agência Brasil

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