
In Italia sono 265 gli impianti ormai disuso perché non nevica più: rimangono scheletri e mostri di cemento. E l’esigenza di ripensare la montagna e il turismo.
I Pfas sono dappertutto, anche alle isole Svalbard. E, con la fusione dei ghiacci, possono contaminare l’ecosistema entrando nella catena alimentare.
Li chiamano forever chemicals, sostanze chimiche eterne: sono i Pfas (sostanze perfluoro alchiliche), composti chimici pericolosi ampiamente usati nell’industria per decenni. Ma c’è anche chi propone di ribattezzarli everywhere chemicals, perché ormai si trovano davvero dappertutto. Perfino nei ghiacci delle isole Svalbard, cioè le terre abitate più a nord della Terra. È quanto emerge da uno studio pubblicato nella rivista Science of the total environment.
Con la sigla Pfas ci si riferisce a un insieme di oltre 12mila sostanze chimiche che dagli anni Cinquanta in poi sono state impiegate per la fabbricazione di innumerevoli prodotti di largo consumo, in virtù della loro capacità di rendere i materiali impermeabili all’acqua e ai grassi. Quando si sono iniziati a scoprire i loro effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute, in molti casi era troppo tardi. Perché questi composti hanno un’altra caratteristica: una stabilità termica e chimica che li rende estremamente resistenti ai naturali processi di degradazione.
Svariate ricerche scientifiche hanno riscontrato un legame tra l’esposizione degli esseri umani ai Pfas e l’insorgere di svariate malattie croniche e degenerative alla tiroide, al fegato, ai reni e non solo. Un problema sanitario che tocca da vicino anche l’Italia, perché decine di migliaia di cittadini del Vicentino li hanno bevuti insieme all’acqua di rubinetto per anni, senza sospettarne i rischi.
I ricercatori, che fanno capo a diverse università europee tra cui quella di Oxford, si sono chiesti se e quanto i Pfas fossero presenti anche nell’Artico. Per scoprirlo hanno analizzato un campione di ghiaccio di circa 12 metri scelto nella remota calotta di Lomonosovfonna, nelle isole Svalbard, a metà strada tra la Norvegia e il Polo nord. Ne hanno cercati 45 e ne hanno trovati 26. 26 diversi composti chimici che, con la fusione dei ghiacci, possono raggiungere la tundra e i fiordi artici.
Ciò significa che possono entrare nella catena alimentare, a partire dal plancton passando poi per i pesci, le foche e gli orsi polari. D’altra parte, un precedente studio li aveva già trovati nel sangue degli orsi polari. Considerato che le temperature nell’Artico crescono più velocemente rispetto alla media globale, accelerando anche la fusione dei ghiacci, è molto probabile che questa migrazione di contaminanti assuma dimensioni considerevoli. Con un impatto ancora da valutare.
Siamo anche su WhatsApp. Segui il canale ufficiale LifeGate per restare aggiornata, aggiornato sulle ultime notizie e sulle nostre attività.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
In Italia sono 265 gli impianti ormai disuso perché non nevica più: rimangono scheletri e mostri di cemento. E l’esigenza di ripensare la montagna e il turismo.
Temendo la presenza di rifiuti tossici, la Groenlandia ha interrotto l’estrazione dell’uranio. Ora potrebbe essere costretta a ricominciare. O a pagare 11 miliardi di dollari.
Un elenco delle parole che l’amministrazione Trump sta scoraggiando o cancellando da siti e documenti delle agenzie federali, legate al clima e ai diritti.
L’organizzazione della Cop30 nella foresta amazzonica porta con sé varie opere infrastrutturali, tra cui una nuova – contestatissima – autostrada.
L’ex presidente delle Filippine è accusato di crimini contro l’umanità per le migliaia di omicidi extragiudiziali nell’ambito della sua lotta alla droga.
Incidente nel mare del Nord tra una petroliera e una nave cargo: fiamme e fumo a bordo, si teme lo sversamento di combustibile in mare.
Saudi Aramco, ExxonMobil, Shell, Eni: sono alcune delle “solite” responsabili delle emissioni di CO2 a livello globale.
A23a, l’iceberg più grande del mondo, si è fermato a 80 km dalla Georgia del Sud, dove ha iniziato a disgregarsi.
Una causa intimidatoria per fermare chi lotta per la difesa delle risorse naturali e contro le giganti del petrolio. È quanto sta vivendo Greenpeace per le proteste contro il Dakota access pipeline.