Usa, il piano di rilancio degli oleodotti si infrange contro il no dei giudici

Lo stop agli oleodotti Dakota Access, Keystone XL e Atlantic Coast segna un duro colpo per l’industria petrolifera americana.

Una delle prime cose che ha fatto Donald Trump per inaugurare il suo mandato da presidente degli Stati Uniti è stata firmare l’atto che ridava il via alla costruzione degli oleodotti Keystone XL e Dakota Access. Con la promessa di stimolare l’economia, creare 28mila posti di lavoro e far leva sul petrolio per raggiungere l’indipendenza energetica. Un plateale dietrofront rispetto alla linea politica del suo predecessore Barack Obama, che aveva bloccato entrambe le opere dando ragione alle richieste, alle voci di ambientalisti e nativi.

Da allora sono passati tre anni e mezzo. Si avvicina novembre, quando i cittadini statunitensi saranno di nuovo chiamati alle urne per decidere se ridare fiducia al tycoon. Quello che sembra certo, fa notare il Washington Post, è che difficilmente questo piano di rilancio vedrà davvero la luce in tempo utile per questo appuntamento. A rimettere a posto le cose, una serie di sentenze che vanno tutte nella stessa – inequivocabile – direzione.

Il presidente degli Stati Uniti mostra un decreto appena firmato nel suo studio alla Casa Bianca © Chip Somodevilla/Getty Images

Imposto lo shutdown per l’oleodotto Dakota Access

Già a marzo un tribunale federale di Washington aveva revocato i permessi per l’oleodotto Dakota Access, costruito per trasportare 400mila barili di petrolio al giorno lungo un tracciato di 1.700 chilometri. Il 6 luglio il giudice federale James E. Boasberg, della corte distrettuale del District of Columbia, ha rincarato la dose. La costruzione dell’oleodotto Dakota Access, si legge nella sentenza, non rispetta i requisiti della legge sul diritto ambientale (National environment polity act, o Nepa).

Ogni giorno di attività, dunque, equivale a un giorno di potenziali rischi per il territorio. Pertanto l’oleodotto va immediatamente fermato e svuotato per consentire il processo di verifica da parte dello United States Army Corps of Engineers. Per circa tredici mesi la sezione dell’esercito specializzata in ingegneria e progettazione sarà impegnata a calcolare i danni che una perdita di petrolio potrebbe causare al lago Oahe, che si trova nei pressi della riserva sioux di Standing Rock. Enorme il dispendio economico a cui Transfer Energy andrà incontro a causa di questo stop forzato.

Secondo il presidente tribale Mike Faith, che parla a nome della comunità sioux di Standing Rock, quella di ieri è una “giornata storica”. “L’oleodotto non avrebbe mai dovuto essere costruito qui. L’avevamo detto fin dall’inizio”. Molto duro il commento rilasciato all’agenzia AFP dalla portavoce di Transfer Energy, Lisa Coleman. “Il giudice Boasberg ha agito eccedendo i limiti dei suoi poteri quando ha ordinato la chiusura dell’oleodotto Dakota Access, che era operativo in sicurezza da oltre tre anni”.

L’oleodotto Keystone XL rinviato al 2021

Dopo oltre un decennio di attesa e dibattito, per quest’estate era previsto l’inizio della costruzione dell’oleodotto Keystone XL. Si snoderà per 1.947 chilometri per portare 830mila barili di bitume al giorno dalle sabbie bituminose dell’Alberta (nel Canada occidentale) fino a Steel City, in Nebraska. Lì si collegherà al tratto già operativo che raggiunge le raffinerie del Texas, dove sarà convertito in petrolio grezzo. Un progetto da 8 miliardi di dollari, voluto e gestito da TC Energy (ex TransCanada) e sostenuto finanziariamente anche dallo stato dell’Alberta, che ne ha acquisito una quota da 1,1 miliardi e ha fornito una garanzia pari ad altri 4,2 miliardi.

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Nel 2015 l’allora presidente Usa Barack Obama aveva bloccato la costruzione dell’oleodotto Keystone XL. Alla sua destra l’attuale candidato democratico Joe Biden © Mark Wilson/Getty Images

Anche in questo caso però è intervenuta la Corte Suprema, che ha concesso a una serie di oleodotti di procedere sulla base di un processo di approvazione più snello. Tra questi però manca Keystone XL, che dovrà ottenere concessioni più dispendiose in termini di costi e tempi. Per l’avvio dei lavori, dunque, bisognerà attendere almeno fino al 2021. Con tutte le incognite legate alle elezioni presidenziali che si terranno nel frattempo. Il candidato democratico Joe Biden ha già promesso di sbarrare la strada all’oleodotto in caso di vittoria e di prendere in considerazione l’impatto climatico di qualsiasi infrastruttura, prima di dare il suo via libera. Ma TC Energy non demorde e promette di andare avanti.

Niente da fare per il gasdotto Atlantic Coast

Solo poche ore prima dalla costa orientale degli Stati Uniti è stato diramato un annuncio molto simile, che molte testate descrivono come un fulmine a ciel sereno. I colossi dell’energia Dominion Energy e Duke Energy accantonano il progetto dell’Atlantic Coast, su cui erano impegnati da anni. Secondo i piani, l’infrastruttura doveva trasportare gas naturale attraverso gli stati di West Virginia, Virginia e North Carolina, segnando un percorso a zig zag lungo circa 960 chilometri.

Il progetto risale al 2014 ma da allora è andato incontro a notevoli lungaggini. Pur non ricevendo la stessa attenzione mediatica del Dakota Access, infatti, anche questo gasdotto si è trovato al centro delle proteste dei cittadini direttamente coinvolti. Particolarmente agguerriti quelli della contea di Buckingham, in Virginia, dove era prevista la costruzione di uno dei tre impianti di compressione necessari per mantenere costanti il flusso e la pressione del gas. Una vicenda a cui si era interessato anche l’ex-vicepresidente Usa Al Gore, che lo scorso anno ha visitato questa piccola comunità rurale a maggioranza afroamericana.

È nata così una lunga battaglia legale con risultati altalenanti. All’inizio di quest’anno la corte d’appello di Richmond ha messo nero su bianco che l’autorità statale di controllo sull’inquinamento dell’aria non aveva preso adeguatamente in considerazione l’impatto della stazione di compressione. A giugno però la corte suprema aveva dato il via libera al passaggio del gasdotto attraverso il sentiero degli Appalachi, nonostante i timori per l’ecosistema e per le specie a rischio. Tra una controversia e l’altra, si è accumulato un ritardo di tre anni e mezzo e i costi sono lievitati fino a 8 miliardi di dollari contro la stima iniziale di 4,5. Con prospettive così incerte, e il rischio di trovarsi a gestire un’infrastruttura antieconomica, i costruttori hanno preferito gettare la spugna.

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