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In alcuni paesi la dissalazione è ampiamente utilizzata. Ma l’associazione Marevivo avverte: “Servono norme più rigide a salvaguardia della biodiversità”.
La dissalazione, ovvero la rimozione della frazione salina dalle acque contenenti sale, può rappresentare una valida soluzione contro la siccità, a patto di rendere le normative più rigide a salvaguardia dell’ambiente marino. È questo il messaggio lanciato dall’associazione ambientalista Marevivo che ha riunito a Roma alcuni fra i massimi esperti in materia, in collaborazione con l’Associazione nazionale comuni isole minori (Ancim) e Idroambiente srl. Da alcuni anni il tema è molto dibattuto nel nostro paese: ciclicamente siamo alle prese con difficoltà nell’approvvigionamento idrico eppure, tra le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo, nessuna è circondata dall’acqua più della nostra.
A livello mondiale, la produzione di acqua potabile dal mare ha superato i 100 milioni di metri cubi al giorno, interessando principalmente i paesi arabi, l’Australia, la costa orientale degli Stati Uniti e alcune realtà non lontane dall’Italia. È il caso di Israele, dove 4 impianti di dissalazione garantiscono il 40 per cento dell’approvvigionamento nazionale; oppure dalla città di Barcellona, il cui livello di piovosità è paragonabile a quello di alcune aree del nostro Mezzogiorno: grazie a un sistema ibrido fatto di 2 potabilizzatori e 2 dissalatori, la capitale della Catalogna riesce a garantire l’acqua potabile a 5 milioni di abitanti e a più di 8 milioni di turisti l’anno. Nel Belpaese, invece, le acque marine o salmastre rappresentano soltanto lo 0,1 per cento delle fonti di approvvigionamento idrico: simili impianti sono presenti in Sicilia, in Sardegna e in alcune isole minori, dove hanno sostituito i vecchi sistemi di alimentazione come il trasporto di acqua potabile su navi cisterna.
Sono principalmente due i problemi che hanno frenato lo sviluppo di questa soluzione. Il primo riguarda i consumi energetici, sensibilmente più alti di quelli dei processi convenzionali di produzione di acqua potabile. Da un lato i miglioramenti tecnologici hanno ridotto l’incidenza di Kwh per metro cubo di acqua prodotta, dall’altro sempre più di frequente si tende a integrare l’energia elettrica per alimentare gli impianti con quella prodotta sul posto da fonti rinnovabili, come il solare e l’eolico. Ma resta il fatto che la dissalazione risulta sostenibile sul piano economico-gestionale solo in presenza di una rete idrica dalle dispersioni contenute: una condizione poco frequente in Italia.
C’è poi la questione della restituzione in mare delle soluzioni saline concentrate che rappresentano lo “scarto” del trattamento. Come ha ricordato nel corso del convegno l’avvocato Antonio Cavallo, nel nostro paese manca una normativa adeguata sull’impatto ambientale di questi impianti: “Nel decreto legislativo 152/2006 che regola la materia degli scarichi non è presente alcuna norma specifica sul tema, non vi è obbligo di procedere a valutazione di impatto ambientale, manca l’indicazione dell’analisi del rapporto costi/benefici e non vi è un espresso divieto di scaricare in mare i prodotti chimici derivanti dai processi di dissalazione”.
I primi studi condotti a Lipari e a Ustica hanno confermato come la salamoia possa creare dei problemi, soprattutto in bacini chiusi o semichiusi. Per Rosalba Giugni, presidente di Marevivo, “c’è ancora molto da fare in campo scientifico per studiare i danni che tali impianti hanno sull’ecosistema marino. I dati sono ancora limitati. A questo si aggiunge anche la carenza normativa che deve essere necessariamente colmata affinché la dissalazione possa essere nostra alleata senza impatto sulla biodiversità”.
Per ovvie ragioni il tema è particolarmente sentito nelle piccole isole, dove l’accesso all’acqua potabile è spesso difficoltoso e legato alle condizioni metereologiche. “Il tema – è l’opinione di Gian Piera Usai dell’Ancim – va trattato secondo un nuovo modello olistico e necessita di soluzioni più strategiche nel contesto di economia circolare che si va affermando”.
Dissalazione sì, insomma, ma dal convegno di Roma arriva un primo campanello d’allarme. Servono approfondimenti scientifici e adeguamenti normativi al fine di prevenire, o perlomeno mitigare, gli impatti di questa tecnologia sulla risorsa mare.
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