La popolazione mondiale di animali si è ridotta di due terzi

In meno di cinquant’anni abbiamo perso il 68 per cento dei vertebrati che insieme a noi popolano questo Pianeta. Ma non tutto è perduto, secondo il Wwf.

Mammiferi, uccelli, rettili, anfibi, pesci: i vertebrati di tutto il mondo sono diminuiti del 68 per cento dal 1970 al 2016. A lanciare l’allarme è il Wwf (World wildlife fund), che ha pubblicato il Living planet report, redatto insieme alla Società zoologica di Londra.

“Un calo medio del 68 per cento negli ultimi cinquant’anni è catastrofico e una chiara prova del danno che l’attività umana sta arrecando al mondo naturale”, avverte il dottor Andrew Terry, della società zoologica. “Se non cambia nulla, le popolazioni continueranno senza dubbio a diminuire, portando le specie terrestri all’estinzione e minacciando l’integrità degli ecosistemi da cui tutti dipendiamo”.

Infatti, “dai pesci degli oceani e dei fiumi alle api, fondamentali per la nostra produzione agricola, il declino della fauna selvatica influisce direttamente sulla nutrizione, sulla sicurezza alimentare e sui mezzi di sussistenza di miliardi di persone”, aggiunge Marco Lambertini, direttore generale del Wwf.

Le cause del declino della fauna selvatica

La causa principale di questa drammatica perdita risiede nella distruzione degli habitat naturali, determinata specialmente dalle attività economiche, tra cui l’allevamento e l’agricoltura che conducono alla deforestazione di vaste zone del Pianeta. Questo cambiamento dell’uso del suolo, cui si sommano la desertificazione provocata dal riscaldamento globale, il commercio di fauna selvatica, la pesca incontrollata, insieme alle continue interferenze da parte dell’uomo nei delicati equilibri della natura, contribuisce anche all’emergere di malattie come la Covid-19.

“Abbiamo inquinato le acque, distrutto le foreste tropicali; come possiamo pensare che in questo cataclisma le malattie, i virus, i batteri resistenti agli antibiotici non possano mettere a rischio la nostra salute? Qualunque popolazione animale in un ecosistema malato si ammala”, puntualizza Isabella Pratesi, curatrice del report del Wwf Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi.

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Nel 2020 gli incendi si apprestano a battere ogni record in termini di estensione, intensità e durata, considerato che ad aprile il numero di segnalazioni già superava del 13% quello dell’anno precedente. E secondo uno studio del @wwf gran parte della responsabilità è dell’uomo.⁣ ⁣ La ragione principale di questo incremento va ricercata nel clima sempre più caldo e secco, unito a un’insoddisfacente gestione delle foreste e all’usanza di distruggere la vegetazione spontanea per lasciare spazio ai terreni agricoli. Almeno il 75% degli incendi è riconducibile a queste e altre attività umane, intenzionali o meno.⁣ ⁣ Dall’analisi dei dati raccolti tra il 2000 e il 2015 emerge che l’85 per cento della superficie andata a fuoco ogni anno appartiene alla savana tropicale, che pure rappresenta soltanto il 19 per cento delle terre emerse. I roghi nelle foreste hanno dimensioni geografiche molto inferiori (“appena” il 10 per cento del totale) ma conseguenze ben più gravi per il clima, perché a loro è riconducibile un quarto della CO2 rilasciata nell’atmosfera. Nel loro complesso, la quantità di CO2 dovuta agli incendi è equivalente a quella emessa in un anno dall’intera Unione europea.⁣ ⁣ “I cambiamenti climatici e gli incendi si rinforzano reciprocamente, e le fiamme che oggi bruciano in diverse zone del mondo sono più vaste, intense e durature rispetto al passato. Se questo trend continuerà, le conseguenze nel lungo termine saranno rovinose”.⁣ .⁣ .⁣ .⁣ #fires #wildlfires #climateemergency #climatechange #globalwarming ⁣#amazonday #amazon #amazonforest #amazonrainforest

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Le specie più minacciate stando al Wwf

Tra le specie in via di estinzione prese in considerazione dallo studio troviamo il gorilla di pianura orientale, il cui numero di esemplari nel Parco nazionale Kahuzi-Biega (nella Repubblica Democratica del Congo) è calato dell’87 per cento tra il 1994 e il 2015, principalmente a causa della caccia illegale. C’è anche il pappagallo cenerino che, in Ghana sud-occidentale, ha subito un declino del 99 per cento tra il 1992 e il 2014 a causa delle trappole usate per il commercio di uccelli selvatici, oltre che alla perdita di habitat.

Monitorando quasi 21mila popolazioni di oltre 4mila specie di vertebrati tra il 1970 e il 2016, è risultato evidente che le specie più a rischio sono quelle che vivono negli habitat di acqua dolce, che hanno registrato un crollo dell’84 per cento, equivalente al 4 per cento all’anno dal 1970. Un esempio è costituito dalla popolazione riproduttiva dello storione cinese nel fiume Yangtze in Cina, diminuita del 97 per cento tra il 1982 e il 2015 a causa dello sbarramento del corso d’acqua.

report Wwf specie in declino
Il pappagallo cenerino è minacciato dal commercio illegale di fauna selvatica © Adriano Argenio/Wwf

Un danno anche per l’economia

Il degrado degli ecosistemi e la conseguente perdita di biodiversità costeranno al mondo almeno 479 miliardi di dollari all’anno, cifra che – secondo il Wwf, il Global trade analysis project e il rapporto Global futures del Natural capital project – nel 2050 sarà cresciuta fino ad ammontare a 9mila miliardi di euro.

Stimare il valore del nostro capitale naturale può sembrare cinico, ma rappresenta uno strumento utile per attuare politiche di conservazione di successo: “Se incrementiamo il valore del capitale naturale nazionale grazie alle nostre politiche, vuol dire che sono efficienti ed efficaci; mentre se non lo incrementiamo, significa che non abbiamo messo in atto una buona politica”, chiarisce Alessandra Stefani, responsabile della Direzione generale delle foreste del ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali (Mipaaf). E, perché no, parlare di denaro può spingerci ad investire nelle nostre risorse, anziché depredarle. Come ha fatto la Scozia, che ha lanciato una sfida: attirare un miliardo di sterline di investimenti (circa 1,16 miliardi di euro) per proteggere il proprio capitale naturale.

Non tutto è perduto

Dedicare anima, corpo (e portafogli) alla tutela del Pianeta e dei suoi abitanti non è solo necessario, ma capace di regalare soddisfazioni: specie come la tartaruga comune (Caretta caretta), lo squalo pinna nera del reef (Carcharhinus melanopterus) o il castoro europeo (Castor fiber), insieme a tigri e panda, stanno attraversando una fase di crescita.

report Wwf sul declino delle specie animali
Castoro europeo © Fred F. Hazelhoff/Wwf

Uno studio pubblicato sulla rivista Journal conservation letters, inoltre, dimostra come 40 specie di mammiferi e uccelli abbiano scampato l’estinzione grazie agli sforzi fatti dal 1993 in poi per garantirne la sopravvivenza. Sforzi che includono l’allevamento in cattività con successiva reintroduzione degli esemplari nell’habitat originario e l’aumento delle tutele di tipo legale.

Si parla, per esempio, della lince iberica – salvata grazie all’Unione europea –, del condor della California, del cinghiale nano e del cavallo di Przewalski, del quale sopravvivono in Mongolia 760 preziosi esemplari.

L’appello del Wwf

Il Wwf chiede azioni urgenti perché si possa invertire la tendenza entro il 2030: arrestare la distruzione degli ecosistemi naturali, rivedere l’intero sistema di produzione e consumo del cibo, rendere il commercio alimentare più efficiente, ridurre gli sprechi e favorire diete più sane e rispettose dell’ambiente.

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Mangiare meno carne è uno dei tasselli più importanti nel mosaico delle azioni per salvare il Pianeta. Scegliere meglio quello che mangiamo ha un peso notevole, come spiegano le cifre.⁣ ⁣ Un animale, per crescere, necessita di acqua e mangime. Quasi il 90% dell’energia contenuta nel cibo ingerito dal bestiame viene persa per permettere la vita dell’animale. In questo modo, tra pascoli e terreni coltivati a mangimi, il bestiame sfrutta il 77% delle terre agricole del Pianeta, eppure produce solo il 17% del fabbisogno calorico globale e il 33% del fabbisogno proteico globale.⁣ ⁣ Poi, tutto ciò che mangiamo richiede acqua per essere creato. Ad esempio, per produrre un chilo di carne bovina servono 15.400 litri di acqua, mentre per ottenere un chilo di legumi se ne utilizzano solo 4.000. In pratica, un singolo burger di manzo ha un’impronta idrica media di 2.350 litri, cioè l’acqua che un essere umano beve in tre anni. ⁣ ⁣ Il problema dei gas a effetto serra è forse il punto più delicato, quando si parla di cambiamenti climatici. L’industria della carne non è sostenibile: produce da sola il 18 per cento delle emissioni globali, più del settore dei trasporti.⁣ ⁣ Per dare un’idea dell’impatto, uno studio ha dimostrato che se gli americani sostituissero la carne con i fagioli, le emissioni di gas serra degli Stati Uniti diminuirebbero dal 46 al 74%. Questo perché per produrre un chilo di carne di manzo si generano 27 chili di CO2, mentre per produrre un chilo di lenticchie non si arriva nemmeno a un chilo di gas serra. ⁣ "Possiamo fare la differenza anche nelle piccole cose ed è più semplice di quanto sembri" @essereanimali⁣ .⁣ .⁣ .⁣ #sustainability #savetheplanet #meatconsumption #meat #co2 #emissions #globalwarming

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La ricerca mostra che l’attuazione dell’insieme di queste misure consentirà di alleggerire le pressioni sugli habitat della fauna selvatica, invertendo in questo modo i trend relativi alla perdita di biodiversità. La palla ora passa nelle mani dei leader che si riuniranno per la 75a sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, negli Stati Uniti, e dal 22 al 29 settembre potranno dibattere le questioni più rilevanti del secolo, proprio come questa. Nell’attesa, è possibile firmare una petizione per chiedere a gran voce che la richiesta di aiuto da parte della natura non venga ignorata.

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