World inequality report 2018. Cosa dice il rapporto completo sulla disuguaglianza nel mondo

Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Nonostante importanti differenze geografiche, negli ultimi decenni la disuguaglianza nel mondo è aumentata ovunque.

Le disuguaglianza nel mondo è aumentata ovunque negli ultimi decenni. E rappresentano non soltanto un volano di povertà e di conflitto sociale, ma anche un elemento in qualche modo costitutivo del sistema economico contemporaneo: il capitalismo globalizzato.

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È questo il messaggio che arriva dal World inequality report 2018 (il rapporto sulla disuguaglianza nel mondo) che è stato presentato a Parigi alla metà di dicembre. Si tratta di un documento che tratta per la prima volta il fenomeno a livello globale: il testo, che consta di 300 pagine, è frutto del lavoro di circa cento ricercatori provenienti da tutto il mondo effettuato su un gigantesco database reso pubblico e dunque a disposizione di chiunque voglia approfondire l’analisi. Obiettivo: fotografare la situazione attuale, comprendere quale evoluzione ci ha portati ad essa ed ipotizzare alcuni scenari per il futuro.

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Gli Stati Uniti sono uno dei paesi al mondo con il maggior divario tra ricchi e poveri © Mario Tama/Getty Images)

L’1% più ricco capta il doppio della ricchezza del 50% più povero

Era il 1936 quando l’economista inglese John Maynard Keynes pubblicava la sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. Spiegandovi che il capitalismo non soltanto non era stato in grado di garantire tassi di disoccupazione sufficientemente bassi, ma aveva anche provocato “una ripartizione della ricchezza arbitraria e priva di equità”. A 80 anni di distanza, tale constatazione è ancor più vera e attuale: “A livello mondiale, tra il 1980 e il 2016 l’1 per cento più ricco della popolazione mondiale ha intascato il doppio della crescita economica rispetto al 50 per cento più povero”, ha spiegato l’economista Lucas Chancel, principale coordinatore del rapporto.

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La crescita della ricchezza in mano al 10 per cento più ricco della popolazione è stata generalizzata nel mondo, anche se il fenomeno non ha avuto ovunque la stessa intensità © World inequality report 2018

“La diseguaglianza economica – spiegano i ricercatori nel testo – rappresenta un fenomeno complesso, multidimensionale e in qualche misura anche inevitabile. Tuttavia, siamo convinti che al suo aggravarsi non vengano fornite risposte efficaci. E ciò potrebbe condurre a catastrofi politiche, economiche e sociali”. Soprattutto nelle nazioni nelle quali il divario tra ricchi e poveri appare più marcato.

In Europa disuguaglianze meno ampie che negli Stati Uniti. Record in Medio Oriente

Il rapporto sulla disuguaglianza nel mondo, infatti, mostra come la mancanza di equità nella distribuzione della ricchezza vari significativamente da regione a regione. Nel 2016, la porzione di reddito nazionale intascato dal 10 per cento più ricco è stata del 37 per cento in Europa, del 41 in Cina, del 46 in Russia, del 47 in America del Nord e attorno al 55 per cento nell’Africa subsahariana, in Brasile e in India. Fino a toccare la punta massima nei paesi del Medio Oriente, con il 61 per cento.

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La percentuale di reddito in mano al 10 per cento più ricco della popolazione, divisa per paese © World inequality report 2018

A preoccupare sono soprattutto i dati relativi allo sviluppo delle economie africane (che suffragano le ipotesi di un altro lavoro, quello di Branko Milanovicintitolato Global inequality: a new approach for the age of globalization, nel quale si teorizza l’esistenza di inarrestabili ondate di disuguaglianza). La mancanza di equità registrata nella distribuzione della ricchezza prodotta in numerosi paesi del continente potrebbe infatti creare una miscela esplosiva se unita con il forte aumento demografico che si prevede nella stessa area. L’Africa, oggi, ospita infatti il 17 per cento della popolazione mondiale, ma si prevede che la quota debba raggiungere il 26 per cento nel 2050.

In Italia, poi tra il 1993 e il 2013 il 90 per cento più povero della popolazione ha visto scendere la propria ricchezza dal 60 al 45 per cento. Mentre il 10 per cento più ricco ha raggiunto il restante 55 per cento.

Cina e Russia, impennata del patrimonio in mano ai ricchi negli ultimi decenni

Ma al di là di tali differenze internazionali, il trend degli ultimi decenni indica un aumento generalizzato delle diseguaglianze: esse sono cresciute, dal 1980 al 2016, soprattutto negli Stati Uniti, in Cina, India e Russia. Ma anche in Europa, sebbene in misura minore. Nel Vecchio Continente, in particolare, la porzione di ricchezza in mano all’1 per cento più ricco della popolazione è aumentata nel periodo di riferimento dal 10 al 12 per cento. Mentre negli Stati Uniti si è passati dal 22 per cento del 1980 al 39 per cento del 2014. “Ciò si spiega in particolare – si legge nel rapporto – con le considerevoli disparità negli Usa in materia di educazione”. Ma anche con l’introduzione di “una fiscalità sempre meno progressiva”, cardine delle teorie economiche liberiste.

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Il sorpasso dell’1 per cento più ricco sul 50 per cento più povero avvenuto negli ultimi decenni negli Stati Uniti © World inequality report 2018

In Cina e in Russia, allo stesso modo, la quota di patrimonio in mano al centesimo più ricco della popolazione è passata, rispettivamente, dal 15 al 30 per cento e dal 22 al 43 per cento. In questo senso, dallo studio internazionale arriva in qualche modo anche una buona notizia: lo scarto tra l’Europa e il resto del mondo indica che le istituzioni, se lo vogliono, hanno a disposizione degli strumenti in grado di limitare le disuguaglianze. Far pagare le tasse con aliquote il più possibile progressive, introdurre trasferimenti a favore dei meno abbienti, imporre un salario minimo o offrire maggiori servizi pubblici rappresentano ad esempio modi efficaci per contrastare la tendenza strutturale del capitalismo ad allargare la forbice tra ricche e poveri. Così come introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie.

Il calo della proprietà pubblica tra le cause della mancanza di equità

Non a caso, il rapporto sottolinea come un ruolo fondamentale nell’incremento delle disuguaglianze sia stato giocato da un fenomeno parallelo: quello che ha visto, nel corso dei decenni, diminuire costantemente la porzione di ricchezza in mano pubblica (e dunque di proprietà della collettività) rispetto a quella privata. “Se nel 1970 il patrimonio netto privato era compreso tra il 200 e il 350 per cento del reddito nazionale nei paesi ricchi, oggi siamo tra il 400 e il 700 per cento”, spiega lo studio. E la crisi finanziaria degli 2008 “non ha invertito la tendenza”.

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Una manifestazione per chiedere una differente tassazioni delle grandi aziende quotate alla Borsa di New York © Spencer Platt/Getty Images

In particolare, in Cina e in Russia negli ultimi decenni si è passati dal 60-70 per cento di proprietà pubblica al 20-30 per cento. “Se ne può concludere che la capacità degli stati di regolare l’economia, redistribuire i redditi e frenare le diseguaglianze è stata limitata nel tempo. La sola eccezione a questo declino generale riguarda i paesi che possiedono importanti fondi sovrani, come la Norvegia”.

Il futuro dipende dalle scelte che faremo oggi

Infine, il Rapporto fornisce alcune proiezioni per i prossimi decenni: “Se la tendenza proseguirà immutata, nel 2050 lo 0,1 per cento di ultra-ricchi controllerà la stessa ricchezza dell’intera classe media in Cina, Stati Uniti e Unione europea”. Ancora peggio andrà se il mondo si uniformerà nell’adozione dell’approccio nordamericano liberista. Mentre l’allargamento della forbice risulterà meno ampio qualora, al contrario, si dovesse scegliere il modello di ispirazione europea.

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Come cambieranno le diseguaglianze in funzione del modello economico che il mondo adotterà nei prossimi decenni © World inequality report 2018

Il tutto con evidenti ricadute soprattutto in termini di povertà: oggi il reddito medio annuale di un adulto facente pare del 50 per cento meno abbiente della popolazione mondiale è infatti pari a 3.100 euro. Essi diventeranno, nel 2050, 9.100 seguendo la dottrina europea e soltanto 4.500 adottando quella statunitense.

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