Le tre grandi sfide del Green Deal europeo

Definire il Green Deal europeo come un piano ambientale è quasi riduttivo. Perché il cambiamento coinvolgerà anche l’economia, la società e la tecnologia.

“Se investiamo centinaia di miliardi di euro per mettere in salvo il nostro sistema economico da questa pandemia, non dobbiamo buttare denaro nell’economia vecchia. Dobbiamo guidare le nostre società verso un futuro più pulito e più sano, un futuro che i nostri bambini potranno abbracciare con speranza, non con paura”. Con queste parole il primo vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, rivolgendosi all’Eurocamera il 6 ottobre, ha ribadito che il Green Deal europeo è e rimane in cima alla lista delle priorità. Ora più che mai. Questo poderoso percorso di transizione verde prende il via da un punto fermo: il modello di sviluppo che abbiamo perseguito finora non è più sostenibile, perché consuma troppe risorse naturali e condanna il futuro del clima. Da qui tre imperativi: azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050, dissociare la crescita economica dall’uso delle risorse, fare in modo che nessuna persona e nessun luogo sia trascurato. Una missione che “richiede una modernizzazione sistemica dell’economia, della società e dell’industria”, ha sottolineato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo Stato dell’Unione. “Significa costruire un mondo più forte in cui vivere”.

Azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2050

Abbassare le emissioni di gas serra a tal punto da fare in modo che siano interamente compensate da quelle che il suolo, gli oceani e le foreste riescono ad assorbire. Carbon neutrality significa questo. L’Unione europea ha imboccato questa strada già da tempo: lo dimostra il fatto che, tra il 1990 e il 2018, le emissioni siano calate del 23 per cento. E non perché l’economia fosse stagnante, come invece è successo durante il lockdown che nella primavera 2020 ha portato una diminuzione delle concentrazioni di gas serra solo illusoria e momentanea. Al contrario, nei 28 anni considerati il pil del Continente è cresciuto addirittura del 63 per cento. Una prova, l’ennesima, del fatto che un’economia fiorente possa andare di pari passo con la salvaguardia del clima.

D’ora in avanti però bisogna premere sull’acceleratore. Lo dicono i dati dell’Emissions gap report 2019 pubblicato dal Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (Unep). Per contenere l’aumento delle temperature globali entro gli 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, come prevede l’Accordo di Parigi, bisognerà dare una sforbiciata alle emissioni globali del 7,6 per cento ogni anno. Questo per dieci anni, dal 2020 al 2030. Centrale il ruolo dei paesi del G20, a cui si deve il 78 per cento delle emissioni planetarie. Insieme a Cina, India, Messico, Russia e Turchia, l’Unione europea è tra i sei virtuosi che secondo le proiezioni riusciranno a rispettare le loro nationally determined contributions (cioè le promesse di riduzione della CO2) semplicemente applicando le politiche già in essere. Ma non è detto che basti. Anche se tutti gli stati si attenessero scrupolosamente agli impegni presi nel quadro dell’Accordo di Parigi, le temperature potrebbero crescere addirittura di 3,2 gradi entro la fine del secolo.

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Durante il lockdown si è verificato un calo delle emissioni di gas serra che però si è rivelato solo temporaneo. Il contrasto ai cambiamenti climatici resta un’assoluta priorità per l’Unione europea © Sean Gallup/Getty Images

È per questo che la Commissione europea ha alzato la posta, nell’auspicio di dare il buon esempio anche alle altre potenze globali. Il quadro 2030 per l’energia e il clima, attualmente in vigore, prevede di ridurre le emissioni almeno del 40 per cento rispetto ai livelli del 1990. Da tempo si dibatte sull’ipotesi di ritoccare al rialzo questo obiettivo. Dopo una consultazione pubblica e un’approfondita valutazione d’impatto, la Commissione ha deciso: proporrà di alzarlo al 55 per cento entro il 2030, sempre tenendo come riferimento i livelli del 1990. Per dare quest’annuncio Ursula von der Leyen ha scelto un momento chiave, il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione. Ciò significa “ridurre le emissioni nel prossimo decennio tanto quanto siamo riusciti a fare negli ultimi 25 anni”, ha precisato il vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo Frans Timmermans. Il Parlamento ha rilanciato, votando per una legge sul clima che porta il target addirittura al 60 per cento. Ora la parola passa al Consiglio europeo, che si esprimerà entro la fine di quest’anno.

Dissociare la crescita economica dall’uso delle risorse

Per secoli la parte più facoltosa dell’umanità è stata ancorata a un modello di pensiero sbagliato. Ha consumato senza freni le risorse del Pianeta nell’errata convinzione che fosse un suo diritto, e che fosse un presupposto indispensabile per far crescere l’economia. Il think tank Global footprint network ha escogitato un modo molto diretto per mostrare le conseguenze. Si chiama Overshoot day ed è il giorno in cui tecnicamente si esauriscono tutte le risorse che la Terra è in grado di generare in un anno. Nel 2019 è scattato il 29 luglio: non era mai successo così presto. Le elaborazioni del Wwf svelano che in realtà in Europa è arrivato molto prima, il 10 maggio. Se i 7,6 miliardi di abitanti del mondo seguissero lo stesso stile di vita del cittadino europeo medio, servirebbero 2,8 Pianeti per soddisfare le loro esigenze.

Il 2020 è stato un anno indiscutibilmente fuori dalla norma, perché la pandemia da coronavirus ha paralizzato per mesi le attività produttive, ha svuotato scuole e uffici, ha tenuto gli aerei fermi negli hangar. Per la prima volta, quindi, l’Overshoot day si è spostato in avanti di ben tre settimane, fino al 22 agosto. Non per questo possiamo abbassare la guardia, però. Gli stati dell’Unione continuano a consumare a ritmi ben maggiori rispetto alla media: nonostante il lockdown, Paesi Bassi e Germania sono in debito con la Terra dal 3 maggio, l’Italia dal 14 maggio (alla pari della Francia), il Portogallo e la Spagna rispettivamente dal 25 e dal 27 maggio. Il Green Deal europeo è anche e soprattutto un piano per una nuova economia che usi in modo più oculato le risorse del Pianeta, appianando questi squilibri.

Ci sono tanti modi per ridurre il consumo di risorse della natura. Alcuni passano attraverso gli stili di vita individuali, altri impongono il ripensamento dei processi produttivi delle imprese. Già da diversi anni l’Unione si fa portavoce del paradigma dell’economia circolare, per cui ogni prodotto va progettato usando il minor quantitativo possibile di materie prime vergini e già nell’ottica di poterlo riparare, riciclare o riutilizzare. Il Continente vanta già alcune eccellenze – tra cui l’Italia – ma la strada è ancora lunga, come dimostra il fatto che oggi soltanto il 12 per cento dei materiali impiegati dall’industria provenga dal riciclo. Il Green Deal europeo quindi rinnova e rafforza questo impegno per mezzo di un piano d’azione per l’economia circolare. Quest’ultimo incentiverà, tra le altre cose, il modello product-as-a-service, per cui il consumatore non è obbligato ad acquistare un bene ma può usarlo per il tempo necessario; la cernita, il riutilizzo e il riciclo dei tessili; la sostituzione degli articoli monouso con alternative durevoli; la riduzione della quantità di rifiuti e il loro corretto smaltimento e riciclaggio.

Rifiuti plastici in un cestino in Germania
Per uscire da quella che viene chiamata economia estrattivista, contraddistinta dall’avvento dei prodotti usa e getta è necessario effettuare la transizione verso l’economia circolare © Sean Gallup/Getty Images

Fare in modo che nessuna persona e nessun luogo sia trascurato

La direzione di questo viaggio è tracciata, ma il punto di partenza non è lo stesso per tutti. Ci sono punte di diamante come la Norvegia, dove la metà delle auto vendute a marzo 2019 era elettrica o ibrida. O la Germania che quest’anno si avvicina alla soglia del 50 per cento di energia elettrica generata tramite le fonti rinnovabili. Spostandosi verso est, però, ci si imbatte nello zoccolo duro dell’economia fossile.

In Polonia il carbone rappresenta poco meno dell’80 per cento della produzione di energia e il 47 per cento dell’approvvigionamento, oltre a dare lavoro a 80mila persone (nel 1990 però erano addirittura 400mila). Alla fine di settembre il governo e i sindacati si sono accordati per chiudere le miniere di carbone, ma con tempistiche molto lunghe: la scadenza infatti è stata fissata per il 2049. La fonte energetica più sporca in assoluto fa la parte del leone anche in Repubblica Ceca, con pesanti ripercussioni per la salubrità dell’aria. In Bulgaria, lo stato più povero dell’Unione europea, vivono 7 milioni di abitanti: 14.500 lavorano direttamente nel settore del carbone, altre 46.800 indirettamente. Gli esempi potrebbero continuare ancora a lungo, toccando molto da vicino anche l’Italia. Basti pensare all’ex-Ilva di Taranto, da cui dipendono le sorti economiche di 8mila famiglie.

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La centrale e la miniera di carbone di Turow, in Polonia © Omar Marques/Getty Images

Per guardare con entusiasmo a un futuro verde è indispensabile anche prendere in carico le esigenze di questi territori e delle persone che li abitano. Frans Timmermans è stato molto chiaro in merito: “La transizione è giusta: deve esserlo, altrimenti non ci sarà alcuna transizione”. Dalla determinazione a “non lasciare indietro nessuno” nasce il meccanismo per una transizione giusta, con cui l’Europa vuole mobilitare fino a 150 miliardi di euro.

Ai lavoratori del comparto delle fonti fossili l’Unione offrirà nuove opportunità di occupazione, formazione e riqualificazione. Al tempo stesso favorirà l’accesso a fonti pulite a prezzi favorevoli e migliorerà l’efficienza delle case in cui vivono, allontanando la prospettiva della povertà energetica. Le imprese più inquinanti verranno accompagnate nella transizione grazie a un mix di investimenti, accesso agevolato ai prestiti, attività di ricerca e sviluppo, incentivando al tempo stesso la nascita di nuove Pmi e startup. È previsto un supporto mirato anche per le amministrazioni nazionali e regionali, per la creazione di nuovi posti di lavoro, infrastrutture, trasporti pubblici, impianti di riscaldamento e produzione di energia, reti di connettività digitale. Tutti accomunati da un ridotto impatto ambientale.

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