Rapido e irreversibile, il rilancio sostenibile dell’Italia per Enrico Giovannini

Enrico Giovannini, anima sostenibile della task force per il rilancio dell’Italia, non ha dubbi: ci vuole una trasformazione rapida e irreversibile, ora.

Ora che il piano di iniziative per il rilancio dell’Italia nel prossimo decennio è stato presentato, ascoltiamo dalle parole di Enrico Giovannini, anima sostenibile della task force, ovvero il comitato di esperti guidato da Vittorio Colao, cosa ci dobbiamo aspettare davvero per il nostro futuro. Cosa dobbiamo fare come società civile? E soprattutto, cosa devono aspettarsi i più giovani ai quali stiamo rubando le opportunità, stiamo rubando il futuro lasciando loro solo macerie e debiti.

Giovannini, già ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, professore all’università di Tor Vergata e portavoce di Asvis, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, ha le idee chiare: dobbiamo fare presto per sfruttare al meglio questa opportunità e far sì che la trasformazione sia “rapida e irreversibile”.

Prima della ripartenza eravamo a un bivio, ripartire come prima o cambiare in ottica di sopravvivenza, in ottica sostenibile. Cosa pensa di questi primi giorni di ripartenza?
È troppo presto per fare una valutazione, ad esempio dovremmo vedere come nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, verranno gestiti dei fenomeni di breve termine, come la gestione dei dispositivi di protezione individuale – mascherine, guanti, la plastica monouso nei ristoranti, alberghi e bar – perché il rischio, come qualcuno ha già paventato, è quello di tornare indietro. Vedremo se gli italiani, soprattutto nelle città, si affideranno all’automobile privata per paura del contagio, o se invece, sfruttando gli incentivi che il governo ha messo a disposizione, ci sarà una scelta a favore di biciclette, elettriche o a pedalata assistita, e altri mezzi analoghi.

Nel medio termine invece l’interrogativo è tutto da sciogliere, anche se sono un po’ più ottimista rispetto a quanto lo ero prima della ripartenza. Questo ottimismo viene da tre aspetti: il primo è che la Commissione europea sta tenendo la barra a dritta e questa scelta va nella direzione dello sviluppo sostenibile, ma poi dovranno essere i Paesi nell’ambito del Consiglio europeo a dire l’ultima parola. Dall’altro lato vedo che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato che la trasformazione ecologica del nostro sistema è comunque una delle priorità del governo. Bisognerà vedere poi gli atti concreti, ma l’impostazione mi sembra corretta. Infine, il nuovo presidente di Confindustria Carlo Bonomi nella sua prima relazione ha detto chiaramente che la sostenibilità economica, sociale e ambientale rappresenta un “must” per il sistema produttivo italiano. Sono stato molto lieto che Confindustria abbia pubblicato qualche giorno fa il primo report di sostenibilità per la confederazione nel suo complesso. Sono segnali interessanti che vanno fortemente orientati nella direzione giusta dall’opinione pubblica.

Orari scaglionati, smart working, digitalizzazione. Secondo lei è in arrivo una rivoluzione nel mondo del lavoro? E cosa succederà a coloro che non possono sfruttare il lavoro agile, che non hanno accesso a internet, a dispositivi mobili e digitali?
Quello che abbiamo vissuto tutti non è lavoro agile o lavoro smart, ma lavoro da casa. Per farlo diventare un lavoro smart serve formazione, organizzazione. Molte imprese sono già orientate a rendere permanente un uso massiccio del lavoro da remoto. Diverso è il caso della docenza: qui c’è una differenza tra università e scuole, il cui peso relazionale conta moltissimo perché l’investimento fatto dalle università per le lezioni in remoto potrebbe essere utilizzato anche per lezioni, non solo dirette agli studenti ma per un grande piano di formazione continua degli adulti, che in Italia manca.

Per le scuole c’è bisogno di capire il prima possibile come tornare in aula, anche se la possibilità di usare la didattica a distanza può essere sperimentata e integrata nel modo normale di fare lezione. Il tema è quello della disponibilità degli strumenti, non solo per i meno abbienti, ma adeguati per tutti. Qui le imprese devono fare un investimento, le pubbliche amministrazioni devono fare un investimento per superare la situazione d’emergenza che abbiamo fronteggiato. Ma questa è una grande opportunità di trasformazione dei tempi di vita di lavoro e potrebbe essere utilizzata proprio per un ripensamento delle città. In questo senso mi sembra importante la decisione del governo di abbassare a 100 addetti il limite oltre il quale un’impresa debba avere un mobility manager con cui le amministrazioni comunali possono dialogare. Insomma: ripensare gli orari, gli spostamenti e il bilanciamento tra vita lavorativa e vita non lavorativa è una straordinaria opportunità che va gestita. Perché quello che abbiamo vissuto non è tutto positivo.

Secondo lei quanto tempo ci vorrà per fare questo scatto sia dal punto di vista della mentalità che dal punto di vista tecnico, fisico? Quanto tempo ci vuole per cambiare un Paese come l’Italia?
Io credo che le imprese saranno molto rapide e non a caso stanno già decidendo cosa fare. Quindi entro l’anno avremo un quadro della situazione. L’Istituto nazionale di statistica (Istat) sta conducendo un’analisi su questi temi e sarà molto interessante vedere i risultati. Dall’altro lato, abbiamo bisogno che le amministrazioni comunali, regionali e nazionali tengano il passo perché senza un sistema adeguato, ad esempio di trasporti o di gestione di altri servizi, penso anche ai servizi socio-assistenziali e agli asili nido, è chiaro che il sistema non fa il salto. Rischiamo di avere reazioni molto negative. L’altra considerazione da fare è il ruolo delle parti sociali. Come hanno detto giustamente diversi leader sindacali, bisogna anche capire come regolare lo smart working perché ci sono problemi di sicurezza e di costi da far assumere giustamente alle imprese. I problemi sono tanti, ma vedo uno spirito di collaborazione che mi fa ben sperare.

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Il libro L’utopia sostenibile scritto da Enrico Giovannini  © Elisabetta Scuri/LifeGate

Come Asvis avete proposto di digitalizzare e ammodernare le infrastrutture esistenti e lei ha chiesto al governo di creare un’unità di resilienza trasformativa. Cos’è e qual è il suo obiettivo?
Ho cominciato a fare questa proposta pubblicamente il 6 marzo, dopodiché il 10 aprile è stato creato il cosiddetto comitato Colao, di cui faccio parte, per immaginare proprio cosa si potrebbe fare nella fase tre, nella fase di rilancio (il lavoro pubblicato dal comitato è disponibile qui, ndr). Mi sembra però importante che – proprio perché Bruxelles sta orientando le scelte verso quegli obiettivi di cui parlavamo prima – ogni paese europeo prepari il suo piano di rilancio all’interno della cornice della Commissione, non solo per utilizzare i fondi, ma perché le parole chiave mi sembrano molto corrette.

Io parlo di resilienza trasformativa perché, normalmente, la resilienza è la capacità di un materiale, di un soggetto, di un collettivo di tornare al suo stato prima di uno shock – come può essere schiacciare una bottiglietta di plastica e poi lasciare che la forma torni quella originaria –. Parlo di resilienza trasformativa perché noi non vogliamo tornare dove eravamo prima della crisi, perché non stavamo bene, l’Italia cresceva poco e c’era un’alta disoccupazione soprattutto giovanile e femminile, grandi disuguaglianze, un’evasione fiscale molto alta, inquinamento, degrado del suolo… insomma non vogliamo tornare dove eravamo. Quindi questa deve essere una grande opportunità per rimbalzare avanti, non indietro. I rischi ci sono, per questo come Asvis ci stiamo impegnando molto verso il Festival dello sviluppo sostenibile che abbiamo spostato a settembre. La buona notizia è che l’attenzione su questi temi è molto alta ed è per questo che abbiamo lanciato anche futuranetwork.eu, un nuovo sito che, dopo la sbornia di queste settimane di interviste e articoli di grandi pensatori su come sarà il futuro, ospiterà interventi su come vogliamo che sia il nostro futuro, perché il futuro è nelle nostre mani e bisogna decidere ora cosa fare proprio a partire dalla cronaca, dai problemi di oggi.

Come LifeGate sarà nostro interesse capire come partecipare. Le faccio una domanda molto concreta: nel suo libro L’utopia sostenibile molto di quello di cui si sta parlando oggi era già scritto. La crisi sanitaria che stiamo vivendo è solo un riflesso, una conseguenza anche di una crisi climatica che incombe e che, più o meno, richiede soluzioni analoghe. Cosa ci vuole ora per mettere in atto quell’agenda?
C’è una vignetta che gira in questi giorni ed è abbastanza terrorizzante, in cui si vede una città piccola piccola che sta per ricevere l’onda dello tsunami della pandemia. Dietro a quell’onda ce n’è una ancora più grande, è la recessione. Dopo la recessione ce n’è una ancora più grande: la crisi climatica. Ursula von der Leyen ha affermato in un discorso che un giorno troveremo il vaccino contro il coronavirus, ma non esiste vaccino contro il riscaldamento globale, quindi dobbiamo prepararci per una grande trasformazione dei nostri sistemi.

Credo che le sue parole siano una sintesi perfetta di come questa crisi abbia mostrato che il capitalismo e le nostre società siano state costruite in modo fragile. Il capitalismo e la globalizzazione degli ultimi 40 anni orientata all’efficienza, alla riduzione dei costi, da un lato hanno prodotto grandi risultati – non dobbiamo negarlo perché miliardi di persone sono uscite dalla povertà estrema – ma dall’altro sembrano incapaci di affrontare un mondo soggetto a shock ripetuti, come già immaginavo nel mio libro. Credo che questo messaggio sia passato forte e chiaro nella mente di leader politici, imprenditoriali, finanziari.

Un esempio concreto: la Banca europea degli investimenti (Bei) nel settembre scorso ha deciso di non finanziare più, a partire dal 2021, progetti energetici basati sui combustibili fossili. La Cassa depositi e prestiti (Cdp) ha visto modificare il suo statuto per legge con un chiaro riferimento all’agenda 2030, allo sviluppo sostenibile. A livello europeo la Bei, a livello nazionale la Cdp sono i motori su cui si imposta lo sviluppo futuro della nostra economia e delle nostre società. Aver messo questi paletti prima della crisi, mostra come bisogna procedere in quella direzione e che è possibile procedere in quella direzione. Tutti dobbiamo spingere per una trasformazione del modo di pensare che ancora non c’è, soprattutto nei consulenti dei politici, che sono stati invece formati nel vecchio paradigma. Ecco perché la società civile, che resta oltre il mandato di un ministro o di un consulente, deve spingere affinché questa trasformazione sia rapida e irreversibile.

Mi sembra di capire dalla sua risposta che le varie richieste di indebolimento di alcune leggi per l’ambiente, non verranno – o quantomeno non dovrebbero essere – accolte dall’Italia e dall’Europa. Cosa succederà al green deal, ma anche a decisioni a breve termine, come la plastic tax?
I rischi ci sono e noi nell’analisi che abbiamo fatto dei vari decreti abbiamo mostrato come l’atteggiamento sia stato ancora quello in gran parte di proteggere, più che di trasformare. In questo senso sono mancati dei nuovi automatismi perché sono scattati i vecchi.

Faccio tre esempi: il primo è quello appunto sulla Plastic tax che è stata rinviata come molte altre imposte, ma non si è pensato a detassare subito i prodotti compostabili che potrebbero evitare il rischio di una nuova ondata dell’utilizzo di plastica per proteggersi dal virus. Quindi si è cercato di proteggere le imprese che si sentono colpite da una tassa “ingiusta”, ma non si è cercato di promuovere l’uso di altri prodotti. Da quello che ho saputo, questo è stato messo all’ordine del giorno, ma derubricato come un elemento non urgente. Se fosse vero, sarebbe un errore clamoroso, che però si può ancora correggere in Parlamento.

Secondo esempio: in questo momento stiamo aiutando con ingenti risorse finanziarie tutte le imprese, anche quelle che evadono o che hanno evaso in passato. Un aiuto di questo tipo avrebbe dovuto essere accompagnato chiaramente da una “promessa” di rigore molto forte in futuro nel caso in cui quelle imprese venissero colte nuovamente ad evadere. Questa cosa non è stata fatta.

Il terzo esempio è quello degli aiuti che vanno a tante imprese, di media e grande dimensione. Un’occasione per obbligare quelle imprese oltre 250 addetti a rendicontare l’impatto sulla dimensione ambientale e sociale, correggendo così un errore gravissimo che il governo guidato da Matteo Renzi ha fatto nel 2016, nonostante il nostro parere contrario, limitando quest’obbligo a pochissime imprese.

I famosi 19 miliardi di euro che vengono spesi ogni anno dallo Stato per sussidi dannosi per l’ambiente potrebbero essere eliminati in blocco, sostituendoli con una riduzione di 10 miliardi del cuneo fiscale. Questo sposterebbe incentivi verso imprese che fanno occupazione, togliendoli alle imprese energivore. Poi 5 miliardi per le imprese per la trasformazione sostenibile e 4 miliardi per un investimento straordinario nei confronti dei giovani e delle donne, che sono i più penalizzati da questa crisi. Io credo che, vista la situazione, il sostegno per una decisione così importante, così forte sarebbe di gran lunga maggiore di quello che abbiamo sperimentato in passato. Ci vuole coraggio in alcuni casi, perché senza coraggio e senza cambiamenti radicali, noi non rimbalzeremo con quella velocità verso il futuro di cui abbiamo bisogno.

Ha parlato di coraggio e di utopia, due doti che caratterizzano i giovani, i ragazzi. Noto con piacere che ora, con l’emergenza sanitaria, gli scienziati siano tornati al centro e abbiano riconquistato l’autorevolezza e il ruolo di guida anche delle decisioni politiche. Non è stato così per la crisi climatica, nonostante siano stati i giovani a chiederci di ascoltare proprio quegli stessi scienziati che da decenni ci dicono che bisogna cambiare. Qual è stato e quale sarà il ruolo dei giovani? Cosa vogliamo dire loro? Che cosa possiamo fare adesso per far sì che la centralità che abbiamo ridato alla scienza – e quindi anche ai giovani – non venga minata?
A causa delle carenze delle politiche precedenti, siamo oggi costretti a rispondere a questa crisi facendo ulteriore debito e l’Italia è un paese già molto indebitato. Questo vuol dire scaricare il peso sulle generazioni giovani e ridurre ancora di più le loro opportunità per il futuro. Quindi mi aspetterei quantomeno che i leader facciano le politiche che i giovani chiedono, altrimenti questa generazione finirebbe, come direbbero a Napoli, “cornuta e mazziata”, cioè non solo non fai le cose che ti chiedo io, ma poi le devo pure pagare io. Mi sembra veramente eccessivo.

In questo momento si possono fare alcune cose che sembrano lontane, ma in realtà sono estremamente concrete: discutere il prima possibile la legge costituzionale per introdurre in Costituzione il principio dello sviluppo sostenibile e quindi il principio di giustizia tra le generazioni. Sarebbe un segnale fortissimo nei confronti dei giovani; introdurre l’impatto atteso di una legge, di un provvedimento sugli obiettivi di sviluppo sostenibile, compreso quello legato ai cambiamenti climatici. Questi sarebbero due cambiamenti di tipo trasformativo. Sarebbero cambiamenti di sistema che obbligherebbero qualsiasi governo, non solo quello in carica, a cambiare il modo di porsi e di rispondere ai problemi, come investimento forte anche nella scienza in un’ottica intergenerazionale.

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