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Federica Matteoli, Fao. Così i cambiamenti climatici stanno affamando il mondo
Intervista a Federica Matteoli della Fao in occasione del pre-vertice Onu a Roma sui sistemi alimentari: l’agricoltura diventi più resiliente e innovativa.
Federica Matteoli, project manager della divisione Ambiente e cambiamenti climatici della Fao, è fra i relatori del pre-vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, in programma a Roma fino al 28 giugno. Un evento che precede il Food systems summit previsto a settembre a New York. I cambiamenti climatici, spiega a LifeGate, hanno effetti diretti sulla quantità e la qualità del cibo a disposizione a livello globale: le soluzioni, tecnologiche e politiche, in molti casi già esistono, ma serve un approccio integrato che coinvolga tutti i soggetti coinvolti, dai produttori fino ai consumatori.
In che modo e in che misura i cambiamenti climatici rischiano di compromettere la capacità dell’agricoltura di nutrire le popolazioni più povere?
I cambiamenti climatici hanno un forte impatto sulla capacità di garantire la sicurezza alimentare globale e di centrare gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Questo perché hanno effetti diretti e indiretti sulla produttività agricola: pensiamo alla riduzione delle precipitazioni, alla desertificazione, al proliferare di parassiti e di malattie. Tutto ciò riduce i raccolti e i nutrienti globali, soprattutto in paesi che sono già in difficoltà. Entro il 2050 dobbiamo aumentare la produttività del 70 per cento, se vogliamo dare a tutta la popolazione mondiale la possibilità di sfamarsi: ma dobbiamo farlo in modo sostenibile. In questo quadro, già difficile, si è aggiunta anche l’emergenza pandemica: in un anno il dato sulle persone che soffrono la fame è passato da 60 milioni a un numero compreso tra gli 83 e i 130 milioni. E nel 2021 tutto fa pensare che queste cifre peggioreranno ulteriormente.
Ci sono effetti tangibili anche in Italia rispetto all’influenza dei cambiamenti climatici sull’agricoltura? Che riflessi possono avere questi effetti sulla qualità del cibo che arriva sulle nostre tavole, e quindi sulla dieta mediterranea?
Decisamente sì, anche il nostro paese è sempre più esposto a fenomeni climatici estremi, mentre in alcuni territori la desertificazione sta avanzando in modo preoccupante. La conseguenza è che si riduce la disponibilità di cibo e al contempo aumentano i costi di produzione lungo tutta la filiera, quindi anche i prezzi sul mercato. Le proteine, il ferro, lo zinco e le vitamine contenute in molti cibi stanno diminuendo a causa dell’aumento dei livelli di CO2. In un solo anno, a causa del cambiamento delle temperature medie e del livello di umidità, nel frumento italiano la quantità di zinco è calata tra il 4 e il 7 per cento, e quella di ferro tra il 5 e l’8 per cento. C’è poi il tema della diversa incidenza delle malattie, basti pensare ai danni causati dalla Xylella in Puglia. Serve quindi maggiore capacità di adattamento per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, ma ciò è possibile solo a patto di fornire agli agricoltori mezzi e conoscenze adeguate.
Quali soluzioni tecniche, sociali e politiche si possono mettere in campo per ridurre questi rischi e per produrre cibo in modo più sostenibile?
Molte soluzioni già esistono, da un uso più consapevole delle risorse idriche a una gestione più razionale dei pascoli, fino allo sviluppo di colture in grado di resistere meglio al calore. Ma ogni soluzione va poi calata concretamente nel contesto e in una situazione socio-economica che varia a seconda dell’area in cui si interviene; e a livello globale abbiamo sicuramente bisogno di politiche più coerenti. In genere i piccoli produttori incontrano grandi ostacoli, sia a livello economico che di competenze, rispetto alla possibilità di dare vita a un’agricoltura più resiliente e innovativa. Oltretutto le sfide non si esauriscono all’interno delle fattorie ma vanno anche oltre, partendo dalla riduzione degli sprechi alimentari e dalla promozione di diete più sostenibili. Serve insomma una visione globale dell’intero quadro delle politiche che coinvolga tutti i soggetti interessati, dai produttori fino ai consumatori.
A proposito dei consumatori, ci sono delle scelte e dei comportamenti che ognuno di noi può seguire per un consumo di cibo più sostenibile?
La prima scelta fondamentale è quella di cercare di seguire la stagionalità dei prodotti. Anche la riduzione degli sprechi alimentari è fondamentale per arginare il cambiamento climatico, perché più cibo si butta via più aumentano le emissioni di gas serra. Inoltre la dieta mediterranea a base di cereali, frutta e verdura, con un consumo ridotto di carne rossa, non è solo garanzia di buona salute ma rappresenta anche un argine rispetto ai clima che cambia. Certo, imporre la dieta mediterranea in paesi la cui economia è strettamente legata alla produzione di carne è più difficile, servono incentivi e politiche mirate.
Ci sono esempi di tecnologie applicate che sono riuscite a mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici?
La tecnologia è ormai un aspetto fondamentale. Per esempio laddove l’acqua scarseggia, si possono aiutare gli agricoltori a utilizzarne i giusti quantitativi e solo quando è necessario. Oppure ci si può avvalere di energia rinnovabile nella trasformazione del sistema alimentare, riducendo gli sprechi di cibo nelle fasi successive alla raccolta. E ancora, i sistemi di allerta precoce possono aiutare nelle decisioni da prendere di fronte alla mutazione delle stagioni, con estati sempre più lunghe e sempre meno piovose. La tecnologia, però, va accompagnata con decisioni politiche e sociali, altrimenti si rischia di mettere in piedi delle cattedrali nel deserto. È importante, ad esempio, spingere gli agricoltori a riunirsi in cooperative o consorzi per acquistare strumenti tecnologici che altrimenti non riuscirebbero a utilizzare.
Così com’è concepito ora, il sistema alimentare è una minaccia per la biodiversità globale?
Sì, è sicuramente un danno per la biodiversità. Per fortuna sul tema sta crescendo l’attenzione di pari passo con progetti concreti per la salvaguardia delle foreste. In Ecuador, ad esempio, la Fao ha fatto partire un importante progetto di produzione del cacao che vede un approccio integrato di agricoltura intelligente con il sistema tradizionale chakra: il risultato è che il cacao viene prodotto all’interno di una foresta senza però deforestare, facendo avanzare di pari passo l’aumento della produttività con il rispetto della biodiversità.
Ospitando il pre-summit, il governo italiano si è assunto l’impegno di definire le ambizioni che animeranno il Food systems summit di settembre. Che aspettative ci sono in vista dell’appuntamento di New York?
L’Italia è da sempre una delle nazioni più impegnate su questi temi, quindi è quasi “naturale”, anche se sempre importante, il fatto che abbia ospitato il pre-vertice. Le aspettative in vista dell’appuntamento di settembre sono molto elevate: sarà un’occasione per confrontarsi e scambiarsi buone pratiche legate all’agricoltura in tutte le sue sfaccettature, e per trovare soluzioni che garantiscano un accesso al cibo sicuro in ogni angolo del pianeta. Ci si confronterà anche sulle migliori modalità per sposare modelli di consumo più sostenibili, arginando la povertà e rendendo il lavoro più dignitoso per tutti all’interno della filiera agricola.
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