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Abbiamo incontrato a Milano l’artista Ibrahim Mahama in occasione della presentazione del suo cortometraggio The co(a)st is memory. Ecco cosa ci ha raccontato.
Lo scorso 7 ottobre, a Milano, in una serata informale tra calici di buon vino e musica jazz del locale N’ombra de vin, abbiamo incontrato Ibrahim Mahama, l’artista 32enne originario del Ghana noto al grande pubblico per i suoi “impacchettamenti” realizzati con sacchi di juta cuciti tra loro. Le sue particolarissime installazioni “sostenibili” sono realizzate con materiali di recupero, ed che esplorano l’impatto sociale oltre che ambientale di un’economia globalizzata. Per questo, la sua arte ha fatto il giro del mondo: le sue installazioni state infatti presentate, nel corso del tempo, addirittura all’Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia nel 2015, oltre che a Documenta 14, esibizione che si è svolta nel 2017 ad Atene e nella città tedesca di Kassel. Ad aprile 2019, l’artista era invece nel capoluogo lombardo con A friend, ovvero l’impacchettamento dei bastioni di Porta Venezia realizzato in occasione dell’Art Week milanese e promosso dalla Fondazione Nicola Trussardi.
Quando lo abbiamo incontrato, Ibrahim si trovava a Milano per presentare il cortometraggio girato in occasione di una delle sue passate installazioni, The co(a)st is memory, in cui racconta le fasi di impacchettamento di alcuni edifici storici della sua città natale, Tamale. L’evento è stato reso possibile grazie a Zeitgeist 19, associazione culturale che organizza incontri con artisti e talenti emergenti di tutto il mondo e promuove “buone cause” legate alla sostenibilità ambientale e sociale, a Gruppo Unipol, e Buta Lab, realtà dedicata allo sviluppo di progetti creativi.
Obiettivo dell’evento: raccogliere fondi per l’Haduwa arts & culture institute di Apam, un’istituzione che ha l’intento di favorire le sperimentazioni artistiche e culturali indipendenti in Ghana.
A margine della serata, abbiamo chiesto a Mahama di raccontarci qualcosa di più sul corto presentato, sul suo rapporto con la sostenibilità ambientale e sull’utilizzo dei materiali “poveri” e di scarto per la realizzazione delle sue opere.
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Ci spieghi il titolo del corto “The co(a)st is memory”?
Si tratta di un film che ho girato in seguito a un progetto che ho realizzato in Ghana un po’ di tempo fa, in cui ho cercato di esaminare la relazione tra diversi edifici monumentali del periodo coloniale e i sacchi di juta normalmente utilizzati per trasportare cacao. Il mio lavoro si è incentrato sul produrre un lavoro artistico con questi materiali di scarto. Il gruppo di persone del luogo con cui ho lavorato e che hanno cucito insieme tutti questi sacchi, ha lentamente ricoperto gli edifici storici e dunque una “memoria”. Il titolo rappresenta un gioco di parole, tra coat, cappotto, che rappresenta la copertura dell’edificio, e cost, legato al costo dei materiali e delle materie prime trasportate da quei sacchi.
A proposito delle persone che cooperano per coprire gli edifici: pensi che la tua arte abbia un forte impatto sulla società?
Be’, io credo proprio di sì. In primo luogo per il modo in cui l’arte viene prodotta e percepita. E poi, in seconda battuta, perché è in grado di creare nuove connessioni e possibilità, nuove conversazioni e riflessioni sulla creazione di comunità. E questo ha di fatto un impatto molto forte sulla società.
Quando è iniziato il tuo interesse per la sostenibilità?
Penso che sia iniziato agli albori della mia attività artistica e dei miei studi, nel 2012 circa, quando ho cominciato il mio percorso alla scuola d’arte in Ghana, all’università. Si è trattato di un percorso incentrato su come l’arte potesse intervenire sulla società e in che modo potesse “rifabbricare” il contesto sociale. Questo – cioè quello della sostenibilità ambientale e sociale – è sempre stato e sempre sarà un aspetto centrale nella mia opera.
Perché per questa e anche per altre opere, come quella in Porta Venezia, a Milano, hai usato proprio i sacchi di juta?
I sacchi di juta sono usati tradizionalmente per contenere il cacao. Non sono prodotti in Ghana, ma provengono da India e Bangladesh e vengono poi riutilizzati per trasportare molti altri generi alimentari. Rappresentano un simbolo del commercio, le contraddizioni di un’economia su scala globale. Penso che sia anche interessante considerare questo materiale quando arriva a fine vita, perché quando diventa un materiale di scarto è lo stesso momento in cui “ci parla”, ci fa riflettere su temi importanti che riguardano il nostro rapporto con lo spazio e le cose. Un’opera come questa, realizzata con un materiale come la juta, suscita reazioni e domande, crea insomma una conversazione.
Dal prossimo 25 ottobre fino al 21 dicembre, Mahama sarà a Roma con una mostra alla Fondazione Giuliani dal titolo Living grains. Si tratta di un lavoro realizzato con una rete di “collaboratori”, grazie ai quali l’artista ha collezionato dal 2014 al 2019 quasi duecento macchine da cucito in disuso per dar vita a un’installazione su grande scala. L’opera sarà una riflessione sul mondo della moda, sull’industria e sul processo di decadimento degli oggetti.
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